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 Il Diritto d’autore Prima parte: La storia, le norme, la fotografia così detta creativa Nonostante la fotografia sia nata nel 1839 – e fin dal 1862 in Francia (caso Mayer e Pierson vs. Betbeder, Thièbault e Schwabbè relativo ad una foto del Conte di Cavour) e dal 1882 negli Stati Uniti (caso Sarony vs. Burrow-Giles relativo ad una foto di Oscar Wilde) sia sorta la problematica della difesa giuridica dell’immagine latente – le due leggi italiane sul diritto di autore del 1865 e de 1882, nulla disponevano. Solo con la L.562/1926 si riconobbe in Italia lo statuto di “opera artistica protetta” alla fotografia conapplicazione del diritto morale di autore. Sennonché, in piena seconda guerra mondiale, la L. 22.4.1941 n. 633 (tuttora vigente anche se ampiamente emendata) escluse le fotografie dalle opere dell’ingegno, riconoscendo solo una tutela indiretta attraverso icosì detti diritti connessi. In poche parole, all’epoca (e l’argomento dovrebbe esseroggetto di approfonditi studi a cavallo tra diritto e storia della fotografia italiana) siritenne prevalente (anche sulla pressione di evidenti interessi commerciali editoriali) la componente meccanicistica della fotografia a scapito dell’aspetto propriamente creativo. Il tutto in palese contrasto con la Convenzione di Berna che fin dalla metà del passato secolo individuava il carattere creativo delle immagini fotografiche. Solo con il D.P.R. 8.1.1979 (per curiosa coincidenza storica nel gennaio 1839 Daguerre diede l’annuncio del procedimento dagherrotipo e nell’estate del 1979 si tenne “Venezia ‘79 lafotografia”, la prima significativa manifestazione sul tema in Italia) si incluse all’art. 2 L. 633/1941 il punto 7, riconoscendo parti protezione ai sensi della legge sul diritto di autore – sia per i diritti patrimoniali che per quelli morali – alle

“” 7) opere fotografiche e quelle espresse con procedimento analogo a quello dellafotografia, sempre che non si tratti di semplice fotografia protetta ai sensi delle norme del capo V del titolo II;”

Non che – dal 1941 al 1979 – non ci fossero stati tentativi di applicare le norme a tutela delle opere dell’ingegno anche alla fotografia: la giurisprudenza aveva più volte ribadito la possibilità dell’applicazione della normativa in oggetto. Più precisamente una causa promossa da Oliviero Toscani avanti al Tribunale di Milano per l’utilizzo previa modificazione di alcune immagini dell’attrice Mita Medici, si concluse con il pieno riconoscimento dei diritti del fotografo ed esattamente del diritto d’autore morale di paternità ed il diritto di opporsi a qualsivoglia modificazione dell’immagine che apporti disdoro alla sua reputazione professionale, con esplicita inclusione delle fotografie tra le opere dell’ingegno in quanto, secondo la normativa dell’epoca (e anche attualmente salvo fondate opinioni di vari giuristi) il diritto morale d’autore non poteva esser riconosciuto alle fotografie c.d. semplici ma solo alla c.d. fotografia creativa. E, alla fine degli anni ’70 – nulla poi è cambiato salvo i necessari adeguamenti alle direttive europee in materia di novità tecnologiche – è in atto una tripartizione che ogni fotografo deve tener presente per poter individuare diritti ed obblighi nonché il livello di tutela giuridica ed esattamente: a) la fotografia come opera dell’ingegno o così detta creativa (art. 2 n. 7 L. 633/1941); b) la fotografia così detta semplice (art. 87 L.A.) tutelata a mezzo dei c.d. diritti connessi; c) la fotografia così detta documentale (art. 87, ultima parte L.A.) senza tutela alcuna. Per cui, davanti ad una qualsivoglia fotografia e per poter individuare il livello di tutela, è necessario incasellarla in una delle tre ipotesi qui sopra ricordate. E l’approccio che l’interprete (giudice, avvocato o semplice fotografo) deve sempre partire dalla nozione d’opera dell’ingegno così come esplicata nel nostro ordinamento: ciò che si protegge non è tanto l’idea ma la sua forma espressiva, la sua esteriorizzazione nonché la presenza del c.d. carattere creativo. In ultima analisi, tale requisito viene identificato con l’apporto personale dell’autore, al di là di una novità oggettiva. Vi è anche richiamo al criterio della bellezza e dell’esteticità, nell’ottica di una esigenza di ampliare il novero delle espressioni tutelate al massimo livello. E per la fotografia la problematica appare abbastanza differente rispetto alle altre arti, visto il sempre presente spettro della meccanicità dell’immagine quale elemento condizionante il risultato finale. Più volte la giurisprudenza ha ritenuto di dover riconoscere il carattere creativo dell’immagine nelle scelte di ripresa del fotografo: però occorre dire come una ripresa tecnica di alta qualità artigianale non è sempre sinonimo di fotografia creativa: in tal caso dovremmo escludere qualunque immagine con (presunti) difetti di ripresa – il mosso, lo sfuocato, il flou, le infiltrazioni di luce, la vignettatura, ecc. – quando invece, questi elementi possono caratterizzare una o più immagini dal forte contenuto espressivo. Anche il riferimento all’oggetto rappresentato non assume – esso solo – il carattere della creatività ma occorre che il fotografo apporti una sua impronta (sia cioè esemplificativa di uno sguardo personale sulla realtà) ed un impegno (per alcuni meramente estetico – in contrasto così con i principi fondamentali del diritto d’autore secondo i quali la protezione prevista deve prescindere da qualsivoglia giudizio di valore o di merito dell’opera – il giudizio deve piuttosto essere di carattere espressivo) all’immagine. Si suole così individuare un “minimo gradiente di creatività” che deve sussistere in ogni immagine affinché possa esser tutelata al massimo livello dalla legge sul diritto d’autore, significando come vi sia la tendenza ad ampliare il più possibile l’applicazione di tale concetto. Inoltre, in tempi recenti (Denis Curti in Fotografia e Creatività, convengo a Milano nel marzo 2009 a cura di TauVisual) si è ritenuto di dover individuare – correttamente – la creatività non solo nella singola immagine ma (anche) nel progetto complessivo.

Avv. Massimo Stefanutti Diritto della fotografia e della proprietà intellettuale

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 Il diritto d’autore Seconda parte: La fotografia così detta semplice e la fotografia così dettadocumentaria Davanti ad una fotografia ed in vista di una tutela da chiedere o da concedere, il primo passo èl’analisi della categoria giuridica cui appartiene l’immagine. Nel sistema giuridico italiano, ladifferenziazione tra le fotografie creative (trattate nella prima parte di questa serie diarticoli – vedi Fotoit di aprile 2010) e le altre due categorie previste (la c.d. fotografia semplice e la c.d. fotografia documentaria) spesso non è agevole per la lacunosità delle normee la poca univocità della terminologia (non giuridica) utilizzata. Bisogna tener presente che sitratta di una norma (l’art.87 L. 633/1941 nella prima parte tratta delle fotografia semplice enell’ultima della fotografia documentaria) scritta negli anni ’40 quando la tecnologia non eraquella di adesso. L’ultima parte dell’art. 87 afferma che “non sono comprese – tra le fotografie semplici, N.d.R. – le fotografie di scritti, documenti, carte di affari, oggetti materiali, disegni tecnici e prodotti simili.”. Era quella un’epoca carente di fotocopiatrici e scanner per cui la mera duplicazione (o riproduzione) di qualsiasi documento originale era affidata alla macchina fotografica con stativo e luci di riproduzione: per cui tale utilizzo del mezzo era puramente meccanico e non vi era alcun intervento dell’inventiva del fotografo. La funzione di queste immagini sarebbe puramente documentaria, laddove con questo termine si deve intendere l’esigenza di fotografare le cose così come sono, senza alcuna alterazione estetica, artistica o altro. Ne consegue come la categoria possa esser anche attualmente utilizzata – anche se in ambitilimitatissimi visto proprio l’avanzare della tecnologia e la capacità di altri mezzi di rendere (edin modo migliore) lo stesso risultato della macchina fotografica – con la precisazione che inpresenza di una finalità commerciale o editoriale le fotografie devono esser considerate come semplici e non più come meramente documentali. A titolo di esempio – per il passaggio dallaterza alla seconda categoria – basti pensare alle foto di monete o francobolli per un catalogo commerciale: tale finalità prevale sul contenuto meramente documentario. Solo se le fotografie in questione contengono – nei più svariati modi – il germe della creatività,potranno esser tutelate come opere dell’ingegno. Le fotografie c.d. documentarie sono sfornite di qualsiasi tutela giuridica. Invece – secondo l’art. 87 parte prima -“sono considerate fotografie (semplici, N.d.R.) le immagini di persone o di aspetti, elementi o fatti della vita naturale e sociale, ottenute col processo fotografico o con processo analogo, comprese le riproduzioni di opere dell’artefigurativa e i fotogrammi delle pellicole cinematografiche.”. La differenziazione tra la fotografia creativa e quella semplice è sempre stata difficile e condotta con criteri spesso soggettivi che conducono, a seconda di chi effettua l’esame, a risultati contraddittori. In sintesi dalle differenti prospettive, si può dire che si tratti di fotografie prive di carattere creativo e che, proprio per l’assenza della citata creatività, non possono rientrare in quest’ultima categoria. E così, se la creatività si può, sostanzialmente, individuare in uno sguardo sul reale dal carattere personale – e, per quanto si possa in fotografia, parlare di originale – la mancanza parziale o totale di tali requisiti può far qualificare quella fotografia come semplice. Sono immagini che possono esser anche prodotte con elevatolivello di professionalità operativa (luci, inquadratura, ecc.), con efficace capacità di rendere ilsoggetto (o l’oggetto) fotografati ma che non appaiono esser dimostrative di una originale interpretazione dell’autore. Nella fotografia documentale vi è un atto meramente riproduttivo della realtà – ma anche qui: la fotografia può riprodurre la realtà in modo pedissequo o è solo un sogno? (Zannier) – ma senza alcuna impronta autoriale anche se il risultato finale può esser tecnicamente eccellente per cui resta la sua classificazione nella fotografia documentale o in quella semplice. In particolare la fotografia di architettura e pubblicitaria sono state ritenute per anni semplice fotografia e così anche la foto di moda (Helmut Newton si è rivoltato a lungo nella tomba) prima che considerazioni più attuali soppiantassero una prospettiva quanto meno inadeguata. La tutela della fotografia semplice è affidata ai così detti diritti connessi: si tratta di una costruzione giuridica (riscontrabile anche in altri ordinamenti) per la quale (art. 88 -89 – 90 L. 633/1941) al fotografo viene riconosciuto un equo compenso qualora l’immagine sia utilizzata a qualunque fine (previo consenso dell’autore o anche a sua insaputa) a patto che la fotografia riporti il nome del fotografo e la data dell’anno di produzione e ciò nella limitata durata di vent’anni dalla data di produzione. Senza i predetti requisiti formali, l’utilizzo della fotografia si deve intendere libero a differenza della fotografia creativa nella quale i diritti patrimoniali e morali nascono al momento stesso della produzione dell’immagine, senza alcuna formalità oregistrazione. In linea di massima la fotografia semplice non gode del diritto morale d’autore in quanto non previsto ma si ritiene l’esistenza di un diritto morale connesso (o almeno del c.d. diritto di paternità) in base ad una interpretazione sistematica delle norme in materia. Avv. Massimo Stefanutti

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Il diritto d’autore
Terza parte: fotografia e web
Come spesso succede, il diritto arriva in ritardo sui fenomeni sociali e solo quando non ne puòpiù fare a meno. Così è successo anche con l’adeguamento del diritto d’autore alle nuove tecnologiche informatiche e alla nascita prima del web.1 ed ora del web.2. Alla fine del passato secolo la crisi del sistema di protezione dei diritti di proprietà individuale fondato sul controllo degli esemplari delle opere profondamente connesso con il principio di indipendenza dei diritti di utilizzazione economica hanno consigliato l’adozione di regole comuni (o quanto meno di un inquadramento generale) poi realizzato con la Direttiva 2001/29 della Comunità Europea. E in Italia, con il recepimento di tale direttiva nel d. lgs. 9.4.2003 n. 68 che ha innovato profondamente la vigente legge sul diritto di autore (l. 633/1941).
Ma, innanzitutto, occorre sottolineare come – questa volta – non siano stati i comportamenti umani ad esigere una modifica normativa bensì una nuova tecnologia, espressa in termini di web, cache, ram, hard disk, downlaod, streaming,drm (digital rights management) system, DOI (digital object identifier system),ecc.
In sintesi, sembra che l’esistenza di un inconscio tecnologico (Vaccari) – all’interno e proprio della singola invenzione tecnica – abbia pesantemente condizionato le nuove norme, con fenomeno quanto meno inedito nella produzione giuridica ma sempre più presente nell’era contemporanea anche in altri settori.
Per cui le modifiche alla L.633/1941 hanno comportato la sostituzione del concetto di diritto esclusivo di diffusione da parte dell’autore con quello di comunicazione alpubblico, l’affermazione di un nuovo diritto di mettere l’opera a disposizione del pubblico in modo che ognuno possa avervi accesso dove e come vuole; e il non meno importante principio secondo il quale il diritto di comunicazione non si esaurisce con la messa a disposizione dell’opera al pubblico e permane in capo all’autore il quale ne può controllare ogni diffusione (art. 16); il divieto di riprodurre direttamente o indirettamente, temporaneamente o permanentemente, le opere poste in rete con eccezione di atti privi di rilievo economico o transitori e accessori al procedimento tecnologico (art. 13 e 68 bis) per cui è possibile scaricare un’opera sulla cache per visualizzarla sul desktop del computer – ma non vi è autorizzazione a memorizzarla in download permanente sull’hard disk – e ciò in deroga al principio dell’esaurimento comunitario secondo il quale il diritto esclusivo di controllare la distribuzione
di un’opera incorporata in un supporto tangibile si esaurisce dopo il primo atto di vendita dell’originale e delle sue copie.
Ed ancora il riconoscimento della validità delle misure tecnologiche a protezione dei diritti (art. 102 quater, 71 quinquies,) e , per quanto riguarda la fotografia, l’eccezione al principio del diritto di riproduzione per uso privato in quanto non previsto dall’art. 71 sexies applicabile solo ai fonogrammi e videogrammi, purché senza scopo di lucro e senza fini direttamente oindirettamente commerciali.
Ma quanto di buono è stato normativamente disposto è stato, per la fotografia, annullato con la disgraziata aggiunta del comma 1 bis dell’art. 70 L. 633/1941 che dispone:
“””È consentita la libera pubblicazione attraverso la rete internat a titolo gratuito, di immagini e musiche a bassa risoluzione o degradate, per uso didattico o scientifico e solo nel caso in cui tale utilizzo non sia a scopo di lucro. Con decreto del Ministro per i beni e le attività culturali, sentiti il Ministro della pubblica istruzione e il Ministro dell’università e della ricerca, previo parere delle Commissioni parlamentari competenti, sono definiti i limiti all’uso didattico o scientifico di cui al presente comma .”””
Premesso che il regolamento non è stato ancora emanato e, di diritto, la norma appare così inapplicabile, di fatto è assolutamente incomprensibile cosa siano le immagini e musiche a bassa risoluzione o degradate. Per la fotografia, bassa risoluzione vorrebbe dire pochi kilobyte o pochi dpi, quando tutte le immagini in rete, proprio per velocità di visualizzazione etrasferimento, sono di tale tipo: per cui la “libera pubblicazione” (qui probabilmente il poco accorto legislatore si riferiva alla possibilità di scaricare dalla rete immagini a bassa risoluzione e di pubblicarle – senza il consenso dell’autore – in rete ma non al di fuori di essa) è ancor qui eccezione ai principi generali della legge sul diritto di autore e, pertanto, norma che apparirebbe esser imperativa e non derogabile dalla volontà dell’autore medesimo. E, ancora, si evidenzia come l’uso di tali immagini – sempre si spera con l’obbligatoria citazione del nome dell’autore anche se si tratta di fotografie semplici – sia limitato alla didattica ed alla scienza (rigorosamente non a fini di lucro per cui tali immagini non potrebbero mai esser edite su un sito con accesso a pagamento) con esclusione di tutte quelle forme di informazione e divulgazione (per esempio le enciclopedie on line) presenti sul web.
Ma il legislatore italiano probabilmente voleva prendere a modello un fenomeno nato negli Stati Uniti denominato “copyleft” (Stallman,1985) in opposizione a “copyright”: concetto poi sviluppato in vari ambiti (open source, freeware, ecc.) fino alle “Creative Commons” (Lessing,2001).
Applicare il sistema contrattuale delle Creative Commons significa condividere in rete contenuti mediali e multimediali di qualunque tipo, autorizzando fin dall’origine l’utente a utilizzare – a certe condizioni – l’opera dell’ingegno, con esclusione di ogni uso puramente commerciale.
Quindi si può andare dalla dichiarazione di pubblico dominio dell’opera fino all’autorizzazione di copiare, distribuire, pubblicare l’opera medesima a particolari condizioni indicate dall’autore.
Con la precisazione che tale modello è alternativo al modello legale della tutela secondo il diritto d’autore ma che, per poter operare vi deve esser necessariamente un’espressa dichiarazione dell’autore. In mancanza opera il regime di protezione fondato sulle normevigenti nel singolo paese.
In sintesi, secondo il modello italiano vi è la possibilità di utilizzare liberamente (ma con i limiti di cui al citato art. 70 comma 1 bis) tutte le immagini esistenti in rete mentre per il sistema delle Creative Commons vi è ugualmente detta libertà ma sottostando alle limitazioni poste dai singoli fotografi.
Per ultimo, si deve sapere che gran parte dei siti nei quali è possibile inserire fotografie (per esempio Flirck) usano il sistema delle Creative Commons (rinviando a complesse note legali) alle quali l’utente aderisce quando si iscrive al sito: e ciò spesso a propria insaputa.
Avv. Massimo Stefanutti

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Piccolo glossario:
Copyright: opera sottoposta alla legge sul diritto d’autore.
Copyleft: opera non sottoposta alla legge sul diritto d’autore per volontà dell’autore
medesimo.
Creative Commons: opera che l’utilizzatore può copiare, distribuire, visualizzare e fruire alle
specifiche condizioni indicate dall’autore.

Come spesso succede, il diritto arriva in ritardo sui fenomeni sociali e solo quando non ne può più fare a meno. Così è successo anche con l’adeguamento del diritto d’autore alle nuove tecnologiche informatiche e alla nascita prima del web.1 ed ora del web.2. Alla fine del passato secolo la crisi del sistema di protezione dei diritti di proprietà individuale fondato sul controllo degli esemplari delle opere profondamente connesso con il principio di indipendenza dei diritti di utilizzazione economica hanno consigliato l’adozione di regole comuni (o quanto meno di un inquadramento generale) poi realizzato con la Direttiva 2001/29 della Comunità Europea. E in Italia, con il recepimento di tale direttiva nel d. lgs. 9.4.2003 n. 68 che ha innovato profondamente la vigente legge sul diritto di autore (l. 633/1941). Ma, innanzitutto, occorre sottolineare come – questa volta – non siano stati i comportamenti umani ad esigere una modifica normativa bensì una nuova tecnologia, espressa in termini di web, cache, ram, hard disk, downlaod, streaming,drm (digital rights management) system, DOI (digital object identifier system),ecc. Sembra che l’esistenza di un inconscio tecnologico (Vaccari) – all’interno e proprio della singola invenzione tecnica – abbia pesantemente condizionato le nuove norme, con fenomeno quanto meno inedito nella produzione giuridica ma sempre più presente nell’era contemporanea anche in altri settori. Per cui le modifiche alla L.633/1941 hanno comportato la sostituzione del concetto di diritto esclusivo di diffusione da parte dell’autore con quello di comunicazione al pubblico, l’affermazione di un nuovo diritto di mettere l’opera a disposizione del pubblico in modo che ognuno possa avervi accesso dove e come vuole; e il non meno importante principio secondo il quale il diritto di comunicazione non si esaurisce con la messa a disposizione dell’opera al pubblico e permane in capo all’autore il quale ne può controllare ogni diffusione (art. 16); il divieto di riprodurre direttamente o indirettamente, temporaneamente o permanentemente, le opere poste in rete con eccezione di atti privi di rilievo economico o transitori e accessori al procedimento tecnologico (art. 13 e 68 bis) per cui è possibile scaricare un’opera sulla cache per visualizzarla sul desktop del computer – ma non vi è autorizzazione a memorizzarla in download permanente sull’hard disk – e ciò in deroga al principio dell’esaurimento comunitario secondo il quale il diritto esclusivo di controllare la distribuzione di un’opera incorporata in un supporto tangibile si esaurisce dopo il primo atto di vendita dell’originale e delle sue copie. Ed ancora il riconoscimento della validità delle misure tecnologiche a protezione dei diritti (art. 102 quater, 71 quinquies,) e , per quanto riguarda la fotografia, l’eccezione al principio del diritto di riproduzione per uso privato in quanto non previsto dall’art. 71 sexies applicabile solo ai fonogrammi e videogrammi, purché senza scopo di lucro e senza fini direttamente o indirettamente commerciali. Ma quanto di buono è stato normativamente disposto è stato, per la fotografia, annullato con la disgraziata aggiunta del comma 1 bis dell’art. 70 L. 633/1941 che dispone: “””È consentita la libera pubblicazione attraverso la rete internat a titolo gratuito, di immagini e musiche a bassa risoluzione o degradate, per uso didattico o scientifico e solo nel caso in cui tale utilizzo non sia a scopo di lucro. Con decreto del Ministro per i beni e le attività culturali, sentiti il Ministro della pubblica istruzione e il Ministro dell’università e della ricerca, previo parere delle Commissioni parlamentari competenti, sono definiti i limiti all’uso didattico o scientifico di cui al presente comma .””” Premesso che il regolamento non è stato ancora emanato e, di diritto, la norma appare così inapplicabile, di fatto è assolutamente incomprensibile cosa siano le immagini e musiche a bassa risoluzione o degradate. Per la fotografia, bassa risoluzione vorrebbe dire pochi kilobyte o pochi dpi, quando tutte le immagini in rete, proprio per velocità di visualizzazione e trasferimento, sono di tale tipo: per cui la “libera pubblicazione” (qui probabilmente il poco accorto legislatore si riferiva alla possibilità di scaricare dalla rete immagini a bassa risoluzione e di pubblicarle – senza il consenso dell’autore – in rete ma non al di fuori di essa) è ancor qui eccezione ai principi generali della legge sul diritto di autore e, pertanto, norma che apparirebbe esser imperativa e non derogabile dalla volontà dell’autore medesimo. E, ancora, si evidenzia come l’uso di tali immagini – sempre si spera con l’obbligatoria citazione del nome dell’autore anche se si tratta di fotografie semplici – sia limitato alla didattica ed alla scienza (rigorosamente non a fini di lucro per cui tali immagini non potrebbero mai esser edite su un sito con accesso a pagamento) con esclusione di tutte quelle forme di informazione e divulgazione (per esempio le enciclopedie on line) presenti sul web. Ma il legislatore italiano probabilmente voleva prendere a modello un fenomeno nato negli Stati Uniti denominato “copyleft” (Stallman,1985) in opposizione a “copyright”: concetto poi sviluppato in vari ambiti (open source, freeware, ecc.) fino alle “Creative Commons” (Lessing,2001). Applicare il sistema contrattuale delle Creative Commons significa condividere in rete contenuti mediali e multimediali di qualunque tipo, autorizzando fin dall’origine l’utente a utilizzare – a certe condizioni – l’opera dell’ingegno, con esclusione di ogni uso puramente commerciale. Quindi si può andare dalla dichiarazione di pubblico dominio dell’opera fino all’autorizzazione di copiare, distribuire, pubblicare l’opera medesima a particolari condizioni indicate dall’autore. Con la precisazione che tale modello è alternativo al modello legale della tutela secondo il diritto d’autore ma che, per poter operare vi deve esser necessariamente un’espressa dichiarazione dell’autore. In mancanza opera il regime di protezione fondato sulle norme vigenti nel singolo paese. In sintesi, secondo il modello italiano vi è la possibilità di utilizzare liberamente (ma con i limiti di cui al citato art. 70 comma 1 bis) tutte le immagini esistenti in rete mentre per il sistema delle Creative Commons vi è ugualmente detta libertà ma sottostando alle limitazioni poste dai singoli fotografi. Avv. Massimo Stefanutti © Riproduzione riservata

Il consenso al ritratto tra scopi culturali (artt. 96 e 97 L. 633/1941 c.d. legge sul diritto d’autore) ed espressione artistica (art. 136, D. lgs. 196/2003 c.d. legge sulla privacy) Prima parte La domanda che un fotografo si fà continuamente, in tema di ritratto, è sempre quella: posso esporre l’immagine di quella persona? La risposta è sempre difficile e risente del caso concreto. Ma prima occorre rapportarsi alla normativa in vigore ed esattamente agli artt. 96 e 97 della L. 633/1941: “” 96. Il ritratto di una persona non può essere esposto, riprodotto o messo in commercio senza il consenso di questa, salve le disposizioni dell’articolo seguente. Dopo la morte della persona ritrattata si applicano le disposizioni del secondo, terzo e quarto comma dell’art. 93. 97. Non occorre il consenso della persona ritrattata quando la riproduzione dell’immagine è giustificata dalla notorietà o dall’ufficio pubblico coperto, da necessità di giustizia o di polizia, da scopi scientifici, didattici o culturali, quando la riproduzione è collegata afatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico. Il ritratto non può tuttavia essere esposto o messo in commercio, quando l’esposizione o messa in commercio rechi pregiudizio all’onore, alla eputazione od anche al decoro nella persona ritrattata.”” Come ben si legge, il consenso – secondo l’art. 96 – è il presupposto normativo per poter esporre, riprodurre o mettere in commercio il ritratto di una persona. Non tutti sanno che “ritratto” non viene inteso in senso strettamente fotografico ma significhi molto di più: le sembianze di un soggetto che porti al suo riconoscimento. Per cui non solo il ritratto del solo viso, ma anche quello di parte di una persona o di un oggetto collegato ad essa, addirittura anche la sola ombra o la silhouette. Di conseguenza la necessità – in linea di massima – di ottenere una “liberatoria” dall’interessato/a per poi poter utilizzare il ritratto. Però il successivo art. 97 L.A. pone delle ipotesi nella quale il consenso non è necessario e il ritratto si può utilizzare senza sanzioni. Tra le varie esenzioni (che in quantotali devono esser interpretate nel senso meno esteso possibile proprio per il loro carattere di eccezionalità), vi è quella relativa agli scopi scientifici, didattici o culturali. La dizione esatta – per la parte che qui interessa – è “…quando la riproduzione dell’immagine è giustificata (…) da scopiscientifici, didattici e culturali…”, precisando come iltermine “riproduzione” vada inteso in senso ampio, come divulgazione dell’immagine sotto ogni forma. Tralasciando gli scopi didattici e scientifici, ci si chiede come si debbano interpretare “gli scopi culturali” e individuare una serie di casi concreti nei quali tale scopo appare prevalente sul contemporaneo diritto del soggetto alla riservatezza della propria immagine. La trattazione non può che iniziare dal termine “scopo” in quanto la norma così indica: scopo potrebbe voler dire fine, intento, mira, proposito che si vuole raggiungere. Ma, in senso fotografico, il fine per cui un’immagine è prodotta spesso non coincide con l’uso di quella immagine ed occorre attentamente verificare il contesto cui appartiene e per la quale viene utilizzata, anche e soprattutto in riferimento a diversi momenti del tempo. A titolo esemplificativo, un ritratto di Mussolini ripreso nel 1940 e in una delle sue tipiche pose a mascella alta e mani sui fianchi, all’epoca dello scatto aveva il fine di simboleggiare la potenza del duce fascista e veniva utilizzatocon scopi di propaganda. Ma, ai tempi nostri, il medesimo ritratto viene esaminato non solo dal punto di vista storico (l’icona di un dittatore) ma utilizzato anche sulle pagine dei libri di storia, per uno scopo che non è più propagandistico ma piuttosto illustrativo e, nello stesso tempo, culturale, inteso come conoscenza. E nella fotografia questi due livelli (il prelievo dalla realtà ed il successivo contesto di utilizzo) all’inizio possono andare di pari passo, salvo poi divergere subito dopo ed indirizzarsi verso lidi diversi. E, nella norma in esame, sembra proprio che il legislatore (si era nel 1941!!!) non avesse presente questa dicotomia tra prelievo del reale ed contesto di utilizzo, usando il termine scopo: una fotografia, al momento dello scatto, può avere o non avere uno scopo ma porsi in relazione ad un uso in un suo contesto che la denota e la connota, immediatamente o successivamente, cambiando nel tempo la lettura dell’immagine. E nella norma si considera il termine “riproduzione” per riferirsi al successivo momento dell’uso dell’immagine all’interno di un contesto che si definisce “scopo culturale” ma dove scopo vuol dire uso. E cosa vuol dire culturale? E’ un aggettivo, significa pertinente alla cultura. Il termine è assente nei dizionari di fotografia e da una ricerca in rete vi sono solo associazioni o istituzioniche dichiarano di esprimere una cultura della fotografia o unafotografia come cultura. La voce relativa in Wikipedia, così dice: “”” Il concetto moderno di cultura può essere inteso come quel bagaglio di conoscenze ritenute fondamentali e che vengono trasmesse di generazione in generazione. Tuttavia il termine cultura nella lingua italiana denota due significati principali sostanzialmente diversi: • Una concezione umanistica o classica presenta la cultura come la formazione individuale, un’attività che consente di “coltivare” l’animo umano; in tale accezione essa assume una valenza quantitativa, per la quale una persona può essere più o meno colta. • Una concezione antropologica o moderna presenta la cultura come il variegato insieme dei costumi, delle credenze, degli atteggiamenti, dei valori, degli ideali e delle abitudini delle diverse popolazioni o società del mondo. Concerne sia l’individuo sia le collettività di cui egli fa parte. In questo senso il c oncetto è ovviamente declinabile al plurale, presupponendo l’esistenza di diverse culture, e tipicamente viene supposta l’esistenza di una cultura per ogni gruppo etnico o raggruppamento sociale significativo, e l’appartenenza a tali gruppi sociali è strettamente connessa alla condivisione di un’identità culturale.””” Le definizioni sono letti sui quali la coperta è sempre troppo corta e lascia sempre una parte del corpo scoperta. E qui la traslazione della duplice definizione alla fotografia non convince più di tanto: da una parte l’uomo e la sua formazione di crescita individuale dall’altra parte la società (di qualunque tipo sia) e le sue manifestazioni. Il primo caso qui interessa in quanto chi scatta è pur sempre un soggetto umano che seleziona all’interno della realtà e porta il proprio sguardo su fatti, accadimenti, circostanze che sono diversi da fotografo a fotografo. Anche l’immagine di un muro può avere una valenza culturale, se supportata da una ragione concreta: ma non si può ricondurre la cultura ad un fenomeno puramente soggettivo, confondendola con l’attività di accrescimento personale di ognuno di noi. La seconda prospettazione pone l’accento sulla realtà e sulla sua documentazione e/o rappresentazione e sembrerebbe esser più calzante: in verità la fotografia è un media complesso, capace ed contemporaneamente incapace di trasmettere informazioni e valori, anche culturali. Facile con un’immagine descrivere qualcosa che riteniamo diverso da noi in quanto appartenente ad una differente area geografica o sociale, difficile far comprendere con un’immagine (se non con un testo a supporto) la complessità della realtà che ci sta davanti. Spesso la fotografia (sia per problemi di comunicazione che di lettura da parte del fruitore) non parla ma si vorrebbe che parlasse da sola. Ed anche per le sembianze di una persona, quanto detto non cambia: il ritratto di una barista cinese può aver diverso significato (e il significato è l’uso che se ne fa) se esposto in mostra amatoriale (qui serve il consenso) piuttosto che invece in un’esposizione magari commissionata da una municipalità per documentare le mutazioni nel tessuto sociale  di un quartiere (qui non serve il consenso). Per cui “culturale” significherebbe un uso informativo e nello stesso tempo rappresentazione all’interno di un contesto complesso, se non addirittura di un progetto preliminarmente precisato. Di qui la necessità di una copertura (preventiva o successiva) per la/le fotografia/e e del collegamento all’interno di un’operazione più complessa o comunque espressamente dichiarata come culturale. E’ qui ovvio che l’uso non debba essere commerciale (sia dichiarativamente che subdolamente) per cui sono al di fuori dell’esenzione dal consenso tutti i casi in cui la finalità è un ricavo economico (anche del solo fotografo, se professionista), fatti salvi i casi marginali. Seconda parte Leggendo i due articoli più sopra, ci si accorge come manchino due ipotesi di esenzione dal consenso: la cronaca e l’arte. La prima è facilmente intuibile: se fosse ammessa come esenzione, il consenso non servirebbe più e sarebbe vanificato tutto il sistema in quanto ogni scatto sarebbe ricondotto, nel bene e nel male, alla cronaca. Invece l’arte (o l’espressione artistica) è meno giustificabile, perlomeno in questo momento storico ma comprensibile nel 1941, data di entrata in vigore della Legge sul diritto di autore che non elencava, negli artt.1 e 2, le fotografie come “opere dell’ingegno di carattere creativo” ed oggetto della protezione. Solo con il D.P.R. 8.1.1979 n. 19, all’art. 2 , n. 7, sono state aggiunte “” le opere fotografiche e quelle espresse con il procedimento analogo a quello della fotografia sempre che non si tratti di semplice fotografia protetta ai sensi delle norme del capo V del titolo “”. Però non è che le attuali norme dividano le fotografie in artistiche o non artistiche: la classificazione è tra creative e semplici (o non creative). Il requisito dell’artisticità o quello più semplice estetico, non servono come criterio differenziatore. Per cui, nel 1941, la fotografia non era considerata arte e tanto meno appartenente ai territori dell’arte e tanto meno era intesa come un mezzo capace di “fare arte”. A tanti anni di distanza sono questioni oramai superate in quanto, nell’ambito delle arti visive, c’è anche la fotografia ma resta la distinzione (se realmente sussiste) tra una fotografia che si esprima con il linguaggio dell’arte ed una che appartenga ad altro ambito, documentario, puramente rappresentativo o che altro. Nel 2003, una nuova normativa, il Dlgs. 196 riordina un nuovo concetto normativo introdotto con la L. 675/1996: la privacy, brutto termine anglosassone per definire il diritto alla riservatezza sui propri dati personali. Tra i dati personali vi è anche la propria immagine, contenuta o meno in una fotografia. E’ evidente come tale nuova normativa si vada a sovrapporre agli artt. 96 e 97 L. 633/1941 e che debba esser coordinata: si conferma il principio del consenso per l’utilizzo della propria immagine ma con la necessità del consenso scritto in caso di dati sensibili e sono indicati nell’art. 4 lett. D): “” d) «dati sensibili», i dati personali idonei a rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale;” Nel 2003 interviene un’importante Direttiva Europea (art. 9 n. 95/46 ) che riordina alcuni aspetti e soprattutto, aggiunge una nuova ipotesi di esenzione relativa ai trattamenti ( cioè uso del dato personale ) eseguiti per finalità di manifestazioni del pensiero e nel campo dell’espressione artistica. All’art. 9 – Trattamento di dati personali e libertà d’espressione, la Direttiva Europea così si esprime: “” Gli Stati membri prevedono, per il trattamento di dati personali effettuato esclusivamente a scopi giornalistici o di espressione artistica o letteraria, le esenzioni o le deroghe alle disposizioni del presente capo e dei capi IV e VI solo qualora si rivelino necessarie per conciliare il diritto alla vita privata con le norme sulla libertà d’espressione.”” La norma italiana , che apprende questo principio, è la seguente: “” Art. 136. Finalità giornalistiche e altre manifestazioni del pensiero 1. Le disposizioni del presente titolo si applicano al trattamento: a) effettuato nell’esercizio della professione di giornalista e per l’esclusivo perseguimento delle relative finalità; b) effettuato dai soggetti iscritti nell’elenco dei pubblicisti o nel registro dei praticanti di cui agli articoli 26 e 33 della legge 3 febbraio 1963, n. 69; c) temporaneo finalizzato esclusivamente alla pubblicazione o diffusione occasionale di articoli, saggi e altre manifestazioni del pensiero anche nell’espressione artistica. Art. 137. Disposizioni applicabili 1. Ai trattamenti indicati nell’articolo 136 non si applicano le disposizioni del presente codice relative: a) all’autorizzazione del Garante prevista dall’articolo 26; b) alle garanzie previste dall’articolo 27 per i dati giudiziari; c) al trasferimento dei dati all’estero, contenute nel Titolo VII della Parte I. 2. Il trattamento dei dati di cui al comma 1 è effettuato anche senza il consenso dell’interessato previsto dagli articoli 23 e 26. 3. In caso di diffusione o di comunicazione dei dati per le finalità di cui all’articolo 136 restano fermi i limiti del diritto di cronaca a tutela dei diritti di cui all’articolo 2 e, in particolare, quello dell’essenzialità dell’informazione riguardo a fatti di interesse pubblico. Possono essere trattati i dati personali relativi a circostanze o fatti resi noti direttamente dagli interessati o attraverso loro comportamenti in pubblico.”” Come ben si nota, la norma italiana attua solo in parte la direttiva europea, non solo tralasciando del tutto l’espressione letteraria (nemmeno citata) ma soprattutto inserendo (anzi, incollando) la previsione dell’espressione artistica in fondo ad un capo, la lettera c) dell’art. 135, che nulla ha che fare con l’espressione artistica. Ad una lettura superficiale, si autorizzerebbe il trattamento dei dati personali nell’espressione artistica relativamente ad un trattamento temporaneo: ma non sembra configurabile un trattamento “temporaneo” ad usi artistici, a meno che non pensiamo ad un ritratto di una persona che subito dopo esser eseguito, venga distrutto. Per cui il principio dell’esenzione dal consenso nell’espressione artistica è qualcosa di autonomo, che deve avere una sua ragion d’essere permanente: la norma, però, sembra pensata per alcune forme d’arte (pittura, scultura, disegno, ecc.) nel quale l’artista si ispira ad un soggetto reale e ne traspone l’immagine in qualcosa che è altro. Posto che il risultato non è il ritratto della persona effigiata ma qualcosa di autonomo e diverso, ben si giustifica l’esenzione da un consenso che altrimenti dovrebbe esser dato. Per la fotografia, invece si impongono delle considerazioni sul suo porsi quale pratica artistica. Partendo da punti (abbastanza) fermi, la fotografia e l’arte si contaminano nel momento in cui la prima serve alla seconda per testimoniare di un’operazione artistica che altrimenti non lascerebbe traccia di sé e nella quale, addirittura, gli artisti non danno rilevanza all’immagine e alle problematiche tecniche. E diventa successivamente il mezzo privilegiato della e nella rappresentazione artistica, quando ci si renderà conto come la fotografia possa imbrigliare tutte quelle tensioni che sono essenziali per la produzione di un’opera d’arte, da sola o mescolata ad altri mezzi artistici. E anche la fotografia, nelle sue quasi infinite declinazioni tecniche, non fa che mettere in azione quel presupposto che è insito in tutte le opere d’arte: far vedere un qualcosa ma contemporaneamente parlare d’altro. In fondo è solo questione di capire il meccanismo dell’arte e riportarlo tale e quale nella fotografia e verificare se c’è veramente quella densità concettuale che è veicolo dell’uomo verso l’indicibile e, nello stesso tempo, espressione del medesimo. Tale sembra la linea interpretativa da adottare nell’individuare le fotografie – in tanti casi dichiaratamente artistiche – e i conseguenti casi di esenzione dal consenso e che appare anche confermata da un’altra considerazione. Il sistema giuridico italiano, all’interno della Legge sul diritto di autore, individua tre livelli relativamente alla fotografia: a) la fotografia come opera dell’ingegno o così detta creativa (art. 2 n. 7 L. 633/1941); b) la fotografia così detta semplice (art. 87 L.A.) tutelata a mezzo dei c.d. diritti connessi; c) la fotografia così detta documentale (art. 87, ultima parte L.A.) senza tutela alcuna. Se dobbiamo individuare una categoria nel quale inserire l’espressione artistica, questa sarà la prima. Solo la fotografia creativa è (secondo la L. 633/1941) “vera fotografia”, dove per vera non intendiamo verosimile ma piuttosto una fotografia svincolata dalle necessità della documentazione, com’è invece nelle seconda e terza ipotesi. E le ipotesi di esenzione dal consenso di cui all’art. 136 Dlgs. 196/2003 non sono altro che la necessaria conseguenza della categoria della fotografia creativa e senza di essa, nemmeno potrebbero esistere. Avv. Massimo Stefanutti Diritto della fotografia e della proprietà intellettuale Riproduzione riservata ©

Se dobbiamo dirla tutta, comincia tutto all’inizio del mondo: “Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio efemmina li creò.”” (Genesi, 1,27). Il primo “plagio” della storia dell’umanità è quello di Domineiddio (e gli è venuto pure male…). Ma l’ispirazione o l’imitazione di qualcosa che esiste (creato dalla natura o da un essere umano) è una costante in qualunque campo della ricerca e della conoscenza: impossibile non risalire a qualche cosa (idea o manufatto) che non contenga anche particelle infinitesimali di qualcosa che lo abbia preceduto. Anche la fotografia (in quanto fondata, a torto o a ragione, su un’idea) non sfugge a questo concetto: di qui la necessità di distinguere le differenti “imitazioni” o “derivazioni”. L’uso dei termini di diritto (che rispecchiano un preciso concetto) è qui fondamentale, così come la prospettiva nella quale ci si pone che è, nel caso di specie, strettamente giuridica e che dà un criterio astratto di valutazione di un fatto, di un atto o di un comportamento, indirizzato all’interprete, sia esso avvocato, giudice o giurista. E questo è anche il limite di questa prospettiva: non si ragiona in termini sociologici, epistemologici, artistici, ecc. ma solo ed  esclusivamente giuridici. Alla fine ci sarà sempre un giudizio, giustificato da una motivazione il più possibile coerente che risponderà alla domanda di base: il caso concreto prospettato, rientra o meno nel concetto astratto posto dalla norma oltre che dalla sua attuale interpretazione? Per chiarire i vari concetti possiamo partire dal dato normativo. Il diritto italiano conosce due norme, l’art. 4 e l’art. 18 della L. 633/1941 (Legge sul diritto d’autore) i quali, all’interno della disciplina sulle facoltà di esercizio dei vari diritti patrimoniali dell’opera creativa,  disciplinano il c.d. diritto di elaborazione: Art. 4 Senza pregiudizio dei diritti esistenti sull’opera originaria, sono altresì protette le elaborazioni di carattere creativo dell’opera stessa, quali le 2 traduzioni in altra lingua, le trasformazioni da una in altra forma letteraria od artistica, le modificazioni ed aggiunte che costituiscono un rifacimento sostanziale dell’opera originaria, gli adattamenti, le riduzioni, i compendi, le variazioni non costituenti opera originale. Art.18 Il diritto esclusivo di elaborare comprende tutte le forme di modificazione, di elaborazione e di trasformazione dell’opera prevista nell’articolo 4. (…) (L’autore) Ha infine il diritto esclusivo di introdurre nell’opera qualsiasi modificazione. “” Inoltre l’art. 171 legge citata sanziona penalmente non il “plagio” (termine sconosciuto normativamente) quanto il c.d plagiocontraffazione, anche come forma aggravata se eseguita con usurpazione della paternità dell’opera. Ma sul concetto normativo torneremo più avanti. Ora è importante dare delle definizioni giuridiche e verificare la loro applicabilità alla fotografia. Secondo una corrente classificazione (1) che qui riportiamo integralmente e virgolettata, occorre distinguere tra: “” 1) contraffazione; 2) falso d’autore 3) plagio. La violazione dei diritti patrimoniali, quali, a mero titolo di esempio, la riproduzione e la pubblicazione delle opere senza il consenso dell’autore, configura illecito da contraffazione. Nella contraffazione in senso stretto si violano solo i diritti patrimoniali dell’autore al quale si riconosce comunque la paternità dell’opera. E’ l’ipotesi, ad esempio, delle pubblicazioni editoriali di fotografie attribuite all’autore, ma senza il consenso del medesimo alla loro riproduzione e pubblicazione. La violazione dei soli diritti morali, che si concretizza nella creazione di un’opera attribuendone la paternità ad un autore diverso, configura fattispecie di illecito per falso d’autore: ciò avviene spesso nella prassi per opere falsamente attribuite ad autori famosi ai fini della loro commercializzazione. La violazione dei diritti 3 patrimoniali e morali configura l’ipotesi di plagio. Il plagio consiste nell’appropriazione degli elementi creativi dell’opera altrui; nel ricalcare, cioè, in modo parassitario quanto da altri ideato e, quindi, espresso in una forma determinata e identificabile attribuendosene la paternità dell’opera vantandosene la sua creazione come originale ed esercitando i diritti patrimoniali conseguenti.”” Ma a che tipo di opera fa riferimento questo autore? Non certo alla fotografia (nella quale mi sembra inapplicabile quanto meno la seconda e terza classificazione) ma piuttosto alla pittura o, piuttosto, alle opere letterarie in quanto l’esatta definizione di plagio (come sopra riportata) è ripresa da una sentenza del Tribunale di Milano dell’11/06/2001, pronunciata in tale materia, La prima categoria viene chiamata contraffazione; ma il termine ha un ben preciso significato in quanto fattispecie penale (art. 474 c.p.). Lì vi è un percorso giuridico ben preciso: vi è prima una produzione di un qualcosa che genuino non è e poi lo sfruttamento economico di tale prodotto ( per esempio una borsa che imita un prodotto di marca anche con la riproduzione truffaldina di un marchio ). Nel caso della fotografia, ritengo che si debba invece parlare di appropriazione (tutelata sia civilmente che penalmente) ogni qual volta un soggetto sottrae l’immagine al proprio autore e, congiuntamente o alternativamente a tale sottrazione, la spaccia per propria, con violazione non solo del diritto morale d’autore ma anche di tutti i diritti patrimoniali inerenti. Tale è l’ipotesi dell’art. 171 L.A. e non sembrano ammissibili altre e diverse interpretazioni del concetto di riproduzione. Per il falso d’autore, la previsione di una tale fattispecie in fotografia mi sembra inverosimile: cosa vuol dire, che un fotografo può ri/realizzare una foto famosa di Niépce o Cartier-Bresson o di Ghirri e poi utilizzarla con il proprio nome? Avremo così una foto originale di Niépce, di Cartier-Bresson o di Ghirri e poi la medesima foto in simil/Niépce o simil/Cartier-Bresson o simil/Ghirri? A parte l’aspetto prettamente tecnico (la ricostruzione di un momento della realtà mediante una sorta di viaggio nel tempo passato e l’utilizzo di 4 materiali tecnici oramai desueti se non irrintracciabili), nessuno prenderebbe in considerazione la “nuova” immagine per il sol motivo che c’è già l’altra, la precedente, l’autentica. Certamente si potrebbe creare una nuova immagine e produrla “come l’avesse fatta…” e “del tempo di…” e poi spacciarla per un ritrovamento casuale, ma sarebbe una diversa ipotesi, un palese falso materiale e si rientrerebbe nel concetto di contraffazione penalisticamente inteso. E la terza ipotesi, il plagio? La classificazione come “appropriazione degli elementi creativi dell’opera altrui” non convince sia in mancanza di una precisazione sul concetto di appropriazione che in difetto di una precisa individuazione dell’elemento creativo che possa tener conto dei molteplici casi concreti (e ricordando che qui si tratta della fotografia e non di altre espressioni). Ma quali sarebbero gli elementi creativi di una fotografia e, quindi, che significa appropriarsi di un’idea fotografica altrui? Purtroppo dobbiamo fare un passo indietro e chiarire che, nel nostro ordinamento giuridico, vi è una tripartizione che ogni fotografo deve tener presente per poter individuare diritti ed obblighi nonché il livello di tutela giuridica ed esattamente: a) la fotografia come opera dell’ingegno o così detta creativa (art. 2 n. 7 L. 633/1941); b) la fotografia così detta semplice (art. 87 L.A.) tutelata a mezzo dei c.d. diritti connessi; c) la fotografia così detta documentale (art. 87, ultima parte L.A.) senza tutela alcuna. Per cui, davanti ad una qualsivoglia fotografia e per poter individuare il livello di tutela, è necessario incasellarla in una delle tre ipotesi qui sopra ricordate. E l’approccio che l’interprete (giudice, avvocato o semplice fotografo) deve sempre partire dalla nozione d’opera dell’ingegno così come esplicata nel nostro ordinamento: ciò che si protegge non è tanto l’idea ma la sua forma espressiva, la sua esteriorizzazione nonché la presenza del c.d. carattere creativo. In ultima analisi, tale requisito viene 5 identificato con l’apporto personale dell’autore, al di là di una novità oggettiva. Vi è anche richiamo al criterio della bellezza e dell’esteticità, nella prospettiva di una esigenza di ampliare il novero delle espressioni tutelate al massimo livello. E per la fotografia la problematica appare abbastanza differente rispetto alle altre arti, visto il sempre presente spettro della meccanicità dell’immagine quale elemento condizionante il risultato finale. Più volte la giurisprudenza ha ritenuto di dover riconoscere il carattere creativo dell’immagine nelle scelte di ripresa del fotografo: però occorre dire come una ripresa tecnica di alta qualità artigianale non è sempre sinonimo di fotografia creativa: in tal caso dovremmo escludere qualunque immagine con (presunti) difetti di ripresa – il mosso, lo sfuocato, il flou, le infiltrazioni di luce, la vignettatura, ecc. – quando invece, questi elementi possono caratterizzare una o più immagini dal forte contenuto espressivo. Anche il riferimento all’oggetto rappresentato non assume – esso solo – il carattere della creatività ma occorre che il fotografo apporti una sua impronta (sia cioè esemplificativa di uno sguardo personale sulla realtà) ed un impegno (per alcuni meramente estetico – in contrasto così con i principi fondamentali del diritto d’autore secondo i quali la protezione prevista deve prescindere da qualsivoglia giudizio di valore o di merito dell’opera – il giudizio deve piuttosto essere di carattere espressivo) all’immagine. Si suole così individuare un “minimo gradiente di creatività” che deve sussistere in ogni immagine affinché possa esser tutelata al massimo livello dalla legge sul diritto d’autore,significando come vi sia la tendenza ad ampliare il più possibile l’applicazione di tale concetto. Tale prospettazione della creatività è, ripetesi, un concetto giuridico e che non sembrerebbe appartenere alla fotografia in sé (per chi fotografa, ogni scatto è creativo…) ma che possiamo utilizzare per esaminare alcune situazioni e per farci delle domande. Chi ri/prende e che cosa? Chi ri/fà e che cosa? Queste domande attraversano tutta la storia della fotografia,sia quella delle immagini conosciute che di quelle sconosciute. Se pensiamo solo al 6 mezzo tecnico (attuale o ai vari procedimenti che si sono succeduti nel tempo), il solo inconscio tecnologico ci potrebbe far concludere che ogni immagine potrebbe esser “uguale” ad un altra, dati il tipo di camera e il supporto usato: nessuna differenza tra le milioni di carte de visite edite dai vari studi fotografici francesi dopo il 1854 (brevetto Disdéri). Sono tutte identiche, con la stessa metodologia di ripresa, gli stessi arredi, le persone nelle medesime pose. Eppure sono di fotografi diversi: sono tutte copie di un’unica progenitrice o piuttosto espressione di un gusto e di una richiesta di mercato, per cui l’omologazione del risultato (l’esibizione del sé nella classe borghese) era prevalente su tutti gli altri fattori? Secondo Benjamin (2) “” Erano circondati da un’aura, da un medium, il quale conferiva al loro sguardo, che vi penetrava, la pienezza e la sicurezza. E anche qui si scopre immediatamente l’equivalente tecnico; esso consiste nell’assoluta continuità tra la luce più chiara e l’ombra più fonda.”” E che dire, per fare un salto di molti decenni, nella riproposizione di tante antiche (o solo desuete) tecniche di ripresa o di stampa (spesso come fossero vere scoperte), ad esempio lo stenopeico, l’infrarosso, la gomma bicromata, la cianotipia, ecc. Seguire qui i passi di altri fotografi (spesso i risultati non si differenziano, negli anni, se non per i materiali usati) e riproporre immagini che spesso non si distinguono se non per il “rito” del fare fotografia in tale modo, è una forma di imitazione (spesso incolpevole) o piuttosto vuol dire rifare un percorso primordiale nel quale l’uso di certe camere e di certi materiali danno un sapore diverso, più artigianale (creativo?) rispetto ai procedimenti tecnologici digitali, freddi ed impersonali? Se poi pensiamo alla fotografia in relazione alla sua autorialità e alle possibilità espressive del mezzo con la divisione del mondo fotografico in due emisferi – gli autori cui far riferimento e la massa anonima – individuiamo primo fra tutti Henry Cartier-Bresson con la teoria del “momento decisivo” che ha (negativamente) condizionato milioni di fotografi, tutti imitatori di un metodo di visione che contraddiceva la realtà e che veniva poi abbandonato per una 7 riflessione più attenta quando ci si accorgeva che nessuna azione umana aveva un punto privilegiato di manifestazione. E poi, quanti imitatori dei bei paesaggi di Franco Fontana, quante riproduzioni di bambini in lacrime (meglio se di colore), di vecchi con le rughe (meglio se con la pipa), nei tanti concorsi per fotoamatori e, adesso, quante elaborazioni con photoshop di foto mediocri con cieli oscurati e panorami improbabili o qualunque altro stilema basato sull’elaborazione tecnica dell’immagine? Anche qui, pura imitazione o piuttosto adesione sincera ad un credo fotografico generalizzato ed indistinto, valido solo in certi contesti? E la fotografia del dolore, ultima spiaggia del quasi morto fotogiornalismo, dove l’orrore è oggetto e soggetto di una continua violenza digitale, a qualunque latitudine e situazione si verifichi? Esiste anche un plagio della morte? Ma se poi passiamo ad un’altra fotografia nella quale il significato dell’immagine viene attribuito all’interno di un contesto più ampio e con riferimento a diverse immagini ad esse presupposte e citate (se non dichiaratamente utilizzate) ci si accorge come la dipendenza di queste nuove immagini sia fortissima e, anzi, il loro spiegarsi come segni sia possibile solo con l’esistenza di altre e diverse immagini cui si riferiscono. A titolo esemplificativo, le fotografie di Cindy Sherman non si comprendono se non ricordano i tanti riferimenti visivi su cui si basano (dagli stilemi del cinema alle foto di moda, ecc.); Jemima Stehli rifà famose immagini di moda di Helmut Newton nelle quali lei stessa è soggetto ed oggetto; Joan Fontcuberta inventa uno scienziato immaginario che scopre fossili di sirena, imitando in modo incomparabile la fotografia antrolopologica; Thomas Ruff scarica fotografie pornografiche da internet e le ingrandisce enormemente dando efficacia straniante all’atto sessuale ; Susan Lipper ripercorre l’America e ritrova (e ri/fotografa) i luoghi (attuali) della grande fotografia documentaria americana, relazionando le nuove immagini con quelle d’epoca; Vibeke Tandberg mischia i propri lineamenti con quelli delle amiche per creare nuovi personaggi; l’italiano Walter Criscuoli sostituisce i propri occhi a quelli di 8 persone note e meno note, scaricando fotoritratti da internet, verificando l’identità propria ed altrui; Richard Prince fotografa cartelloni pubblicitari e ne ingrandisce i particolari, astraendoli dal contesto, come per difesa dagli inganni della pubblicità; Joachim Schmid cerca foto altrui tra i rifiuti e le rimette nel circuito visivo, valorizzando il loro contenuto emozionale e comunicativo. Tutti questi autori (e le fotografie che creano o utilizzano) hanno padri e madri sempre certi e certe ma nessuno penserebbe di usare il termine “plagio” o “appropriazione” per definire il loro lavoro. Se poi ci caliamo nel diritto italiano ed esaminiamo il panorama giurisprudenziale, non troviamo sentenze che affrontino il problema del plagio nella fotografia: o, meglio, non si rintracciano sentenze che affrontino del plagio sotto l’aspetto dell’appropriazione degli elementi creativi dell’opera altrui e cioè tra fotografia e fotografia. La ricerca in due delle maggiori banche dati italiane non ha dato risultati e tutte le sentenze in materia di fotografia, più semplicemente, chiamano plagio non l’appropriazione degli elementi creativi dell’opera altrui per produrre una nuova immagine bensì la vera e propria appropriazione dell’immagine originaria e la sua riproduzione (copia in senso tecnico) a scopi commerciali, con violazione dei diritti morali dell’autore e di quelli patrimoniali. Anche lo stesso art. 151 L. 633/1941 tratta l’argomento in questa prospettiva di riproduzione di un’immagine altrui (senza affermarsene autore) ed anche nella forma aggravata di usurpazione della paternità dell’opera altrui. E, riprendendo i due articoli 4 e 18 L. 633/1941, occorre ricordare come le varie facoltà di esercizio dei diritti patrimoniali sono dettati per tutte le opere creative, senza differenziarli per categoria, per cui i singoli concetti devono esser adattati a seconda del mezzo espressivo e del momento storico, oltre che al dato tecnologico: l’elaborazione di un disegno ha riferimenti diversi da quelli della fotografia, e così il concetto di riproduzione. 9 Nella lettura dell’art. 4 si percepiscono tre livelli di elaborazione, così come sono stati individuati dalla dottrina (3): a) elaborazioni non creative; b) elaborazioni creative; c) nuove opere originarie. Il primo caso sarebbe un “plagio” mascherato da elaborazione nel quale manca un sufficiente elemento creativo; il secondo caso l’elemento creativo vi sarebbe in misura modesta tale che l’opera derivata può esser autonomamente considerata; nel terzo caso l’elemento creativo sarebbe così marcato da sostanziarsi in una nuova opera autonoma dalla precedente. L’art. 18 legge citata pone un limite, nel caso sub b: l’esecuzione di un’opera derivata è lecita ma non i diritti di utilizzazione economica (ed anche quelli morali) non sono leciti senza l’espresso consenso dell’autore dell’opera originaria. Occorre però definire il concetto di elaborazione (creativa e non) in rapporto alla fotografia: in questo tempo nel quale è possibile intervenire pesantemente sulle immagini/file con i programmi idonei, il confine tra l’elaborazione creativa e quella non creativa sembra solo affidato alla digitazione (più o meno cosciente) sulla tastiera di un computer. Chiunque si può improvvisare elaboratore di immagini altrui, anche e soprattutto in mancanza di una compiuta idea espressiva. Ed ora è molto più facile mascherare (con poca probabilità di esser smascherati) la propria incapacità espressiva dietro il paravento di un’elevatissima capacità tecnica. E’ certo un problema dell’interprete ridefinire il confine tra elaborazione creativa e non creativa, ma non sarà mai una soluzione semplice. Anche perché, alla base del c.d. diritto di elaborazione, c’è sempre una vera e propria appropriazione Un recente caso ha visto protagonista il fotografo americano Richard Prince il quale ha ritenuto di riprodurre (ri/fotografandola) un’immagine di Patrick Cairou (4) e provvedendo ad un’elaborazione con aggiunta di un nuovo elemento. 10 Se dovessimo giudicare la fotografia derivata con il parametro dell’art. 4 L. 633/1941 (il caso è stato sentenziato negli Stati Uniti in senso sfavorevole – parzialmente – a Prince anche se, ovviamente, su altri riferimenti giuridici), ritengo fondatamente che vi sarebbe stato il medesimo esito: l’elaborazione dell’immagine originaria (previa appropriazione) da parte di Prince non raggiunge quel minimo livello di creatività richiesto dalla norma. Per cui, al momento, se vi è un risultato secondo quest’analisi normativa, è una prima negazione del concetto di “plagio” nella fotografia. Ma esaminiamo il concetto di “riproduzione” che trova il suo fondamento nell’art. 13 L. A. per il quale “il diritto esclusivo di riprodurre ha per oggetto la moltiplicazione in copie diretta ed indiretta, temporanea o permanente, in tutto o in parte dell’opera, in qualunque modo o forma, come la copiatura a mano, la stampa, la litografia, l’incisione, la fotografia, la fonografia, la cinematografia ed ogni altro procedimento di riproduzione”. Per chiarire rapidamente il concetto generale, riproduzione vuol dire trasferimento di un’opera da una forma ad un’altra, precisando che spesso la medesima attività riproduttiva può esser anche considerata come comunicazione al pubblico, ad esempio per mezzo di internet. La riproducibilità della fotografia è legata indissolubilmente al supporto, sia esso file che negativo o carta o metallo o che altro e la sua riproduzione non potrà che passare per il medesimo mezzo e procedimento tecnologico relativo al supporto predetto. Riproduzione potrà essere solo un duplicato derivato direttamente dal supporto originario e null’altro. Qualunque “differenza” tra l’originale e la copia non potrà esser considerato riproduzione. Senza dubbio la riproduzione di una fotografia su una maglietta, su un bicchiere, su un muro, ecc. richiede il consenso dell’autore, ma si tratta sempre della medesima fotografia originaria ed è un caso di appropriazione dell’opera altrui e ciò che viene in rilievo non è il rapporto opera/autore, quanto l’opera in sé considerata. E, nel caso 11 non vi sia perfetta identità tra l’opera originaria o riprodotta, si potrà discutere se si tratta o meno di una elaborazione creativa ex art. 18 L.A.: la non perfetta identità – nel caso della fotografia – non potrà esser rintracciata nella dimensioni dell’immagine quanto piuttosto, ad esempio, nella modificazione del colore o da colore a bianco e nero od anche dall’aggiunta di altri elementi, anche di altre fotografie. Un altro caso si è recentemente imposto all’attenzione della cronaca ed è quello di David Burdeny per il preteso plagio delle opere di Sze Tsung Leong’s ( 5 ,qui potete vedere le immagini). Al momento non si ha notizia di un contenzioso tra i due fotografi ma – viste le immagini – si possono esprimere alcune osservazioni sul punto. E’ vero che – dati i medesimi mezzi tecnologici (anche la più banale camera digitale compatta) e l’identico punto di ripresa – il risultato possa esser uguale? Necessariamente la risposta è negativa, anche se apparentemente è positiva: prima di tutto la realtà esiste ed è la medesima per tutti. La piramide o l’ansa della Loira sono sempre lì, a disposizione di chiunque. Il punto di ripresa può esser obbligato (la riva è quella, la distanza dalla piramide anche); il momento dello scatto può esser diverso o uguale: estate o inverno, notte o giorno, sole o cielo coperto; la camera anche (banco ottico o che altro): ma ciò che fa la differenza è sempre il fotografo, la sua intenzionalità, la sua percezione, il suo discorrere con la realtà. E, nel caso Burdeny/Leong’s occorre ben leggere le immagini (anche nella loro progetto complessivo) in quanto una differenza può esser non percepibile a prima vista, ma esiste: uno più estetico, l’altro concettuale. Un altro esempio: le due fotografie del ritrovamento, il 9 maggio 1978, del cadavere di Aldo Moro, a Roma, in Via Caetani, dopo il rapimento e l’assassinio da parte delle Brigate Rosse. Sul luogo si ritrovarono Rolando Fava (fotografo dell’agenzia Ansa) e Gianni Giansanti (un fotografo free lance). Scattano – così sembra – dalla stessa distanza, probabilmente uno accanto all’altro: le foto si differenziano non solo per il bianco e 12 nero per Fava e il colore (pellicola per luce artificiale) per Giansanti ma per l’infinitesimale intervallo tra uno scatto e l’altro (osservate il gesto del militare a destra con il basco ed il braccio piegato) (6). Uno ha plagiato (copiato l’idea) (al)l’altro al momento dello ripresa (uno doveva scattare e l’altro no?) oppure è un caso più unico che raro di corrispondenza (quasi) esatta tra fotografie diverse? Questa è la controprova che “riproduzione” può essere solo la copia dal supporto originale e non anche quella di un fatto reale. Rolando Fava © Copyright ANSA – Tutti i diritti riservati Gianni Giansanti Le conclusioni di questa indagine vanno tutte nel senso della negazione di un concetto di plagio applicato alla fotografia nella legislazione italiana, nel senso indicato di parassitaria 13 riproduzione. Troppi sono gli ostacoli giuridici oltre che squisitamente fotografici per poter affermare il contrario. Argomento, invece, affrontato dalla legislazione americana che, all’interno del Copyright Act, conosce il c.d. fair use anche con tutti i limiti di quella impostazione. In fondo, il plagio in fotografia – ammettendone una sua configurazione al di là dell’aspetto giuridico – apparirebbe essere solo un problema etico ed affidato alla coscienza del fotografo. Per cui “copiare” (con fini fraudolenti o anche inconsciamente) una fotografia altrui potrebbe essere rilevato dalla coscienza sociale (più particolarmente dalla comunità fotografica) come atto non consentito. Ma, leggendo in trasparenza non solo le varie vicende di plagio e così le norme, si può invece riconoscere un ulteriore diritto, quello di “ispirazione”: ma tale non è un diritto d’autore patrimoniale od economico, quanto un diritto di ognuno ad essere autore di qualcosa di autentico, di personale, anche se non di unico. Avv. Massimo Stefanutti © Riproduzione riservata. Note: (1) Salvo Dell’Arte, Opere fotografiche e plagio trasversale. Tutela cautelare in Dir. Aut., 2007, 266. (2) Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966, 67. (3) Così in P. Marchetti – L.C. Ubertazzi, Commentario breve alle leggi sulla proprietà intellettuale e concorrenza, Cedam Padova, 2007, 1509. (4) http://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/2011/03/31/guardare-manon- toccare/ 14 (5) http://www.latimes.com/la-ca-photoplagiarism28- 2010feb28,0,2723688.story (6) La foto di Rolando Fava è stata ritrovata in rete con un copyright, riportato sotto l’immagine; al contrario di quella di Gianni Giansanti che non riporta indicazioni di sorta. Si deve precisare come entrambe le fotografie siano “semplici” e il diritto d’autore sia scaduto, in quanto termine ventennale dalla data di realizzazione. In ogni caso, l’art. 70, comma 1 bis L. 633/1941 consente la liberazione riproduzione dell’immagine in rete per fini didattici. Crediti: Charlotte Cotton, La fotografia come arte contemporanea, Einaudi, Torino, 2010 Nicolò Rositani e Italo Zannier, La Fotografia, Dall’immagine all’illecito nel diritto di autore, Skira, Milano, 2005, 97. Silvia Segnalini, Dizionario giuridico dell’arte, Skira, Milano, 2010 @@@ Cindy Sherman http://www.cindysherman.com/ @@@ Franco Fontana http://www.nationalgeographic.it/fotografia/2010/06/24/foto/franco_fontana_le_ fotografie-50967/1/ @@@ Jemima Stehli http://lunastarcreations.blogspot.com/2007/07/jemima-stehli.html @@@ Joan Fontcuberta http://www.fontcuberta.com/ @@@

1.Le norme di riferimento

2. La cessione

3. L’ambito di operatività

4. Le fotografie creative e le fotografie semplici.

5. L’oggetto della cessione

6. La cessione della fotografia creativa

7. La cessione della fotografia semplice

8. lo scopo della cessione

La problematica giuridica inerente le cessione delle fotografie non è semplice e sarà il più possibile schematizzata, precisando comunque che la trattazione affronta il solo argomento del trasferimento dei diritti patrimoniali. 1. Le norme di riferimento In primo luogo, si precisa che quanto si esporrà fa riferimento all’ordinamento giuridico italiano e non anche ad altri ordinamenti ed esattamante alle norme della L. 644/1941 e successive modificazioni in materia di diritto d’autore. Per cui, qualora il fotografo dovesse affrontare la cessione a terzi di una propria immagine e si trovasse a trattare con un soggetto che non opera in Italia, preliminarmente deve porsi il quesito di quale diritto applicare. A ciò ci vengono in soccorso le norme di diritto internazionale privato italiane ed esattamente la L. 975/1984 che ratifica la Convenzione di Roma in materia di obbligazioni contrattuali. Per questa normativa, qualora la legge regolatrice del rapporto non venga scelta concordemente tra le parti, il contratto è regolato dalla legge del paese col quale presenta il collegamento più stretto. Peraltro, neppure in questo caso appare facile individuare il diritto applicabile ed il criterio dato è quantomeno evanescente e variamente interpretabile. In alternativa, nei contratti di cessione ( o comunque nei contratti dove sono trasferiti diritti inerenti alla fotografia ) è sempre utile individuare il così detto “foro competente” : che non è uno stenopeico dotato di particolari conoscenze, ma più semplicemente l’ordinamento giuridico ( spesso con ulteriore riferimento ad un tribunale specifico ) che le parti, congiuntamente, ritengono comune ed applicabile al loro rapporto: A titolo di esempio: “” Le parti pattuiscono di sottoporre il presente contratto esclusivamente al diritto italiano, individuando come competente a conoscere e giudicare di ogni controversia, il Tribunale Ordinario di Milano “”. Clausola, spesso, molto utile per determinare – in via preventiva – a quale diritto nazionale far riferimento. 2. La cessione Il termine “cessione” ricorrere in molte norme della L. 633/1941 ( legge sul diritto d’autore ) e viene posto come presupposto per l’applicazione di molte norme specifiche. Ad esempio l’art. 89 L.A. : “ La cessione del negativo o di analogo mezzo di riproduzione della fotografia comprende, salvo patto contrario, la cessione dei diritti previsti nell’articolo precedente, sempreché tali spettino al cedente.”” Tale termine assume due significati: a) quale fatto giuridico, cioè un accadimento nel mondo reale; b) quale atto giuridico, cioè la qualificazione giuridica che il diritto dà di tale fatto. Per cui il semplice fatto di una cessione ( cioè della materiale consegna di un stampa o di un file tra due soggetti ) dev’esser qualificata ed inquadrata, dal diritto, in una certo schema negoziale. Per cui si potranno avere le seguenti situazioni, che corrispondono tutte a specifici schemi contrattuali: 1) la compravendita; 2) la donazione; 3) il comodato; 4) la locazione; 5) il noleggio; 6) il leasing; e comunque ogni contratto che le parti vogliano adottare. Ad esempio, se un fotografo che invii le proprie immagini ad un’agenzia in vista di una futura vendita, è atto che non rientra tra quelli più sopra nominati ma è pienamente valido avendo una precisa ragione economico sociale. Per cui, quando si parlerà di cessione nel prosieguo di questo articolo, occorrerà sempre far riferimento non solo al fatto materiale del trasferimento ma soprattutto al rapporto giuridico che le parti intendevano adottare. Occorre precisare anche come cessione vada intesa anche la successione mortis causa, sia legittima che testamentaria che la donazione mortis causa, il c.d. legato. Ma sul punto sono operanti gli artt. 115 e seguenti L.A. ai quali si rinvia. 3. L’ambito di operatività Molte delle norme della Legge sul diritto di autore hanno carattere cogente, altre sono dispositive, altre ancora sono supplettive: nel caso della fotografia, la gran parte sono dispositive salvo alcune che non hanno però rilevanza in questa trattazione. Il che vuol dire che le parti sono libere di modellare i propri rapporti giuridici come meglio vogliono e ritengono conformi ai propri interessi, prescindendo da quanto statuito in alcuni dei 206 articoli della L. 633/1941. Per cui le norme di questa Legge (soprattutto in materia di fotografia ma non solo) si applicano quando non c’è una regolamentazione tra le parti, in forma scritta. La precisazione è molto importante perché i problemi sorgono quando i rapporti tra le parti non hanno la necessaria chiarezza e trasparenza. 4. Le fotografie creative e le fotografie semplici. Nel diritto italiano è in atto una tripartizione che ogni fotografo deve tener presente per poter individuare diritti ed obblighi del fotografo nonché il livello di tutela giuridica ed esattamente: a) la fotografia come opera dell’ingegno o così detta creativa (art. 2 n. 7 L. 633/1941); b) la fotografia così detta semplice (art. 87 L.A.) tutelata a mezzo dei c.d. diritti connessi; c) la fotografia così detta documentale (art. 87, ultima parte L.A.) senza tutela alcuna. Per cui, davanti ad una qualsivoglia fotografia e per poter individuare il livello di tutela, è necessario incasellarla in una delle tre ipotesi qui sopra ricordate. E l’approccio che l’interprete (giudice, avvocato o semplice fotografo) deve sempre partire dalla nozione di opera dell’ingegno così come esplicata nel nostro ordinamento: ciò che si protegge non è tanto l’idea ma la sua forma espressiva, la sua esteriorizzazione nonché la presenza del c.d. carattere creativo. In ultima analisi, tale requisito viene identificato con l’apporto personale dell’autore, al di là di una novità oggettiva. Vi è anche richiamo al criterio della bellezza e dell’esteticità, nell’ottica di una esigenza di ampliare il novero delle espressioni tutelate al massimo livello. E per la fotografia la problematica appare abbastanza differente rispetto alle altre arti, visto il sempre presente spettro della meccanicità dell’immagine quale elemento condizionante il risultato finale. Più volte la giurisprudenza ha ritenuto di dover riconoscere il carattere creativo dell’immagine nelle scelte di ripresa del fotografo: però occorre dire come una ripresa tecnica di alta qualità artigianale non è sempre sinonimo di fotografia creativa: in tal caso dovremmo escludere qualunque immagine con (presunti) difetti di ripresa – il mosso, lo sfuocato, il flou, le infiltrazioni di luce, la vignettatura, ecc. – quando invece, questi elementi possono caratterizzare una o più immagini dal forte contenuto espressivo. Anche il riferimento all’oggetto rappresentato non assume – esso solo – il carattere della creatività ma occorre che il fotografo apporti una sua impronta (sia cioè esemplificativa di uno sguardo personale sulla realtà) ed un impegno (per alcuni meramente estetico – in contrasto così con i principi fondamentali del diritto d’autore secondo i quali la protezione prevista deve prescindere da qualsivoglia giudizio di valore o di merito dell’opera – il giudizio deve piuttosto essere di carattere espressivo) all’immagine. Si suole così individuare un “minimo gradiente di creatività” che deve sussistere in ogni immagine affinché possa esser tutelata al massimo livello dalla legge sul diritto d’autore, significando come vi sia la tendenza ad ampliare il più possibile l’applicazione di tale concetto. Invece – secondo l’art. 87 parte prima L.A. -“sono considerate fotografie (semplici, N.d.R.) le immagini di persone o di aspetti, elementi o fatti della vita naturale e sociale, ottenute col processo fotografico o con processo analogo, comprese le riproduzioni di opere dell’arte figurativa e i fotogrammi delle pellicole cinematografiche.”. La differenziazione tra la fotografia creativa e quella semplice è sempre stata difficile e condotta con criteri spesso soggettivi che conducono, a seconda di chi effettua l’esame, a risultati contraddittori. In sintesi dalle differenti prospettive, si può dire che si tratti di fotografie prive di carattere creativo e che, proprio per l’assenza della citata creatività, non possono rientrare in quest’ultima categoria. E così, se la creatività si può, sostanzialmente, individuare in uno sguardo sul reale dal carattere personale – e, per quanto si possa in fotografia, parlare di originale – la mancanza parziale o totale di tali requisiti può far qualificare quella fotografia come semplice. Sono immagini che possono esser anche prodotte con elevato livello di professionalità operativa (luci, inquadratura, ecc.), con efficace capacità di rendere il soggetto (o l’oggetto) fotografati ma che non appaiono esser dimostrative di una originale interpretazione dell’autore. Nella fotografia documentale vi è un atto meramente riproduttivo della realtà – ma anche qui: la fotografia può riprodurre la realtà in modo pedissequo o è solo un sogno? (Zannier) – ma senza alcuna impronta autoriale anche se il risultato finale può esser tecnicamente eccellente per cui resta la sua classificazione nella fotografia documentale o in quella semplice. In particolare la fotografia di architettura e pubblicitaria sono state ritenute per anni semplice fotografia e così anche la foto di moda (Helmut Newton si è rivolterebbe nella tomba se lo sapesse) prima che considerazioni più attuali soppiantassero una prospettiva quanto meno inadeguata. La tutela della fotografia semplice è affidata ai così detti diritti connessi: si tratta di una costruzione giuridica (riscontrabile anche in altri ordinamenti) per la quale (art. 88 – 89 – 90 L. 633/1941) al fotografo viene riconosciuto un equo compenso qualora l’immagine sia utilizzata a qualunque fine (previo consenso dell’autore o anche a sua insaputa) a patto che la fotografia riporti il nome del fotografo e la data dell’anno di produzione e ciò nella limitata durata di vent’anni dalla data di produzione. Senza i predetti requisiti formali, l’utilizzo della fotografia si deve intendere libero a differenza della fotografia creativa nella quale i diritti patrimoniali e morali nascono al momento stesso della produzione dell’immagine, senza alcuna formalità o registrazione. Questa succinta esposizione per poter dire come la cessione delle fotografie abbia caratteristiche assolutamente diverse se si tratta di fotografie creative o semplici. 5. L’oggetto della cessione Ma cos’è oggetto della cessione, quando si parla di fotografia? La storia della fotografia ci insegna come tanti procedimenti si siano sostanziati nella produzione della “copia unica” dove per copia si deve intendere un unico originale, prodotto in un solo esemplare: il dagherrotipo, l’ambrotipo, la diapositiva, il fotocolor, la Polaroid, ecc. Lo sviluppo della tecnologia ha portato al negativo e alla possibilità di replicare infinite volte quanto ripreso con la produzione di “stampe” ( a colori o in bianco e nero ) ed ora al negativo digitale che si sostanzia in un file (RAW – grezzo – se è il file originale che la camera ha prodotto ) anche se è controverso – ma giuridicamente irrilevante – se il file originario raw sia unico o meno in quanto già il trasferimento (il downlaod) del file dalla camera al computer si sostanzierebbe in una copia del file raw originale che resterebbe nella macchina fotografica fino alla cancellazione. Il tutto senza dimenticare che la tecnologia attuale ci permette di duplicare tutto o quasi tutto tramite lettori, scanner o che altro, senza che si riesca – in tante occasioni – a distinguere originale e copia. Qualora si tratti di veri “originali” ( cioè di esemplari unici ) appropriata è la dizione “originale” usata nella Legge. Ma quando si tratta di copie (rectius: stampe dallo stesso negativo o di duplicazioni digitali del medesimo file) occorre interpretare le norme in modo corretto e sistematico ed adattandole ai mutamenti tecnologici. Occorre sempre tener presente come la Legge sul diritto d’autore sia del 1941, epoca carente non solo della tecnologia fotografica digitale ma anche di scanner, fotocopiatrici, ecc. e che le successive modificazioni non hanno intaccato l’impostazione generale né apportato significativi adattamenti. In sintesi, oggetto della cessione può essere non solo “l’originale” ma anche una copia (una stampa o la riproduzione del file). Ed ogni “cessione” dell’originale o della copia, comporta anche la cessione ( o meno ) di una serie di facoltà di esercizio del diritto d’autore, inerenti all’originale o alla copia medesima. 6. La cessione della fotografia creativa In quanto opera dell’ingegno (art. 1, n. 7 L. A.), la fotografia segue le medesime regole di qualunque creazione artistica ma con un equivoco di fondo; le norme sul diritto di autore sono pensate con riferimento (implicito) ad opere d’arte singole (il quadro, la scultura, il disegno, l’incisione, ecc. ) e non anche ad opere d’arte che possano esser replicate serialmente. Infatti, per questa particolare ipotesi, vi è l’art. 109 L.A. secondo comma. “” Tuttavia la cessione di uno stampo, di un rame inciso o di altro simile mezzo usato per riprodurre un’opera d’arte, comprende, salvo patto contrario,la facoltà di riprodurre l’opera stessa, sempreché tale facoltà spetti al cedente””. Di qui la difficoltà di argomentare per linee generali e la necessità di capire, caso per caso ed ipotesi per ipotesi, cosa sia stato oggetto della cessione, sempre partendo dalla differenza che sia stato ceduto un originale o una copia (una stampa o la riproduzione di un file). Per iniziare, l’art. 109 L.A. primo comma: “” La cessione di uno o più esemplari dell’opera non importa, salvo patto contrario, la trasmissione dei diritti di utilizzazione, regolati da questa legge.”” Questo articolo è la base giuridica di qualunque trattazione che abbia come argomento la cessione dei diritti (rectius: facoltà) inerenti alle opere d’arte. Per esemplificare, la legge sul diritto d’autore riconosce agli autori una serie di singoli diritti di utilizzazione patrimoniale che sono normalmente classificati nel seguente modo: – diritto di pubblicazione; – diritto di riproduzione; – diritto esclusivo di diffusione al pubblico; – diritto di distribuzione; – diritto di elaborazione; – diritto di introdurre modifiche dell’opera; per limitarsi a quegli inerenti alla fotografia. Tutti i diritti – secondo l’art. 19 L.A. – sono indipendenti tra loro e l’esercizio di uno non comporta automaticamente l’esercizio degli altri, né la loro rinuncia od esclusione. Nella fotografia, per rendere il concetto normativo, si distingue tra il c.d. corpus mechanicum e il c.d. corpus mysticum. Il primo corrisponde alla fotografia in sé, materialmente considerata come supporto (anche digitale in quanto, in fondo, i pixel che costituiscono il file sono tangibili) e il secondo nei diritti di utilizzazione economica inerenti (e incorporati) nella fotografia medesima. Sembra una situazione schizofrenica ma è solo la corretta applicazione delle norme giuridiche in materia di opera dell’ingegno. Ne consegue come, in caso di cessione (anche onerosa) di una stampa fotografica (ricordando qui che trattiamo delle fotografie c.d. creative), l’autore trasferisce ad altri l’immagine (il c.d. corpus mechanicum) ma nello stesso tempo trasferisce anche il c.d. corpus mysticum e cioè – in tutto o in parte – i diritti di utilizzazione economica sulla fotografia, ma solo se questo trasferimento è espressamente (per iscritto) pattuito. In caso contrario, all’acquirente sarà trasferito solo il supporto materiale (la stampa) e questi avrà solo il diritto di appenderla a casa e vederla con qualche amico, ma non potrà esercitare alcun diritto di utilizzazione economica (ad esempio esporla in una galleria, pubblicarla o riprodurla). Qualora fosse pattuito, l’acquirente potrà esercitare i diritti di utilizzazione economica nei limiti del trasferimento da parte dell’autore. Anche l’acquirente potrà trasferire a terzi la fotografia, ma potrà trasferire solo i diritti di utilizzazione economica che gli sono stati trasferiti, in applicazione del principio giuridico che non si può trasferire più di quanto sia ha. Le situazioni più controverse sono proprio quelle nelle quali le parti nulla hanno pattuito e non è nemmeno possibile risalire, in qualche modo, agli accordi presi: per esempio, se la foto è pubblicata in un libro assieme ad altre dell’autore, si può ben presumere una cessione della fotografia (o la concessione) della facoltà di pubblicazione all’editore. La L.A. soccorre in una sola situazione: laddove la cessione abbia per oggetto il solo negativo. L’art. 109 secondo comma L.A. ( pur non nominando il negativo, la diapositiva o il file digitale) assume che la cessione di una di tali mezzi idonei a “riprodurre” l’opera d’arte, contempli anche , in capo al cessionario, la sola facoltà di “riprodurre” l’opera. Norma coraggiosa e applicabile a certe arti ( per esempio l’incisione ) ma che mal si adatta alla fotografia: posto che la fotografia è un procedimento complesso che non si esaurisce nel negativo ma continua poi con la stampa dell’immagine (e nel caso di fotografie autoriali vi è un percorso preciso che parte dalla ripresa ed arriva alla stampa finale, controllato ed imposto dal fotografo e tale da connotarlo), chi ha così interpretato la norma non ha certo considerato lo sviluppo della tecnologia della fotografia faccia sì che i procedimenti di ripresa, sviluppo e stampa subiscano mutamenti profondi anche nel breve periodo. Sia sufficiente pensare all’uso di Photoshop (o di prodotti analoghi) in post-produzione, anche solo per correggere il contrasto del file: si ha , così, un concetto di “riproduzione” (nonché del relativo diritto) più esteso di quello originariamente e normativamente previsto, in quanto comprendente anche il diritto di elaborazione. Sarebbe oggi impossibile riprodurre (e dare lo stesso risultato finale) a fotografie stampate dall’autore anche solo vent’anni addietro. E possiamo qui rispondere ad un altro quesito: il possesso del negativo (o della diapositiva o del file raw digitale) autorizza il possessore all’esercizio di tutti i diritti patrimoniali inerenti a quanto posseduto? La domanda s’impone in quanto, sia per prassi che per convinzione comune, si ritiene che il possesso dei negativi sia indice di disponibilità assoluta dei diritti sulle immagini, sia latenti che positive. La risposta è duplice e presuppone che chi possiede il negativo non sia l’autore o un suo erede: a) nel caso di applicazione dell’art. 109 secondo comma L.A., il possessore del negativo (o della diapositiva o del file raw digitale) potrà solo riprodurre l’opera e nient’altro, essendo gli altri diritti patrimoniali tuttora in capo all’autore o ai suoi eredi; b) nel caso di trasferimento effettivo e per iscritto di tutti i diritti di utilizzazione economica, potrà liberamente esercitarli. E, riassumendo per la semplice stampa, anche qui la risposta è duplice e presuppone che chi possiede la stampa non sia l’autore o un suo erede: a) nel caso di trasferimento del solo c.d. corpus mechanicum,l’acquirente non potrà esercitare alcuno dei diritti patrimoniali tuttora in capo all’autore o ai suoi eredi; b) nel caso di trasferimento effettivo e per iscritto di tutti i diritti di utilizzazione economica ( di parte di essi ) , l’acquirente potrà liberamente esercitarli. Per ultimo, si sottolinea come – se per il negativo o altro – le conclusioni siano facili, per le stampe la situazione è più complicata. Ad eccezione della circostanza di una cessione di un’unica stampa in esclusiva (senza che l’autore ne faccia altre) e con essa tutti i diritti di utilizzazione economica – ipotesi nella quale il fotografo si spoglia di ogni diritto relativo all’immagine – normalmente vi sono più stampe che vengono poi vendute, distribuite, donate, ecc. Nel momento in cui si pone il problema di cosa il fotografo abbia ceduto con riferimento ad ogni specifica immagine. Il più della volte non appare difficile risalire, in qualche modo, al contenuto della cessione ma altre volte ciò è difficoltoso. In mancanza di dati certi, occorrer chiedere l’autorizzazione all’autore o ai suoi eredi, sempre nei limiti temporali (70 anni dalla morte) stabiliti nella legge sul diritto di autore. 7. La cessione della fotografia semplice Per le problematiche nelle fotografie c.d. semplici (art. 87 L.A.) ci soccorrono gli artt. 88 e 90 L.A. Nel primo articolo, al primo comma “” Spetta al fotografo il diritto esclusivo di riproduzione, diffusione e spaccio della fotografia, salve le disposizioni stabilite dalla sezione seconda del capo sesto di questo titolo, per ciò che riguarda il ritratto e senza pregiudizio, riguardo alle fotografie riproducenti opere dell’arte figurativa, dei diritti di autore sulla opera riprodotta . “” La norma prevede un diritto esclusivo (uguale nel contenuto ma diverso nell’utilizzo rispetto a quelli delle fotografie creative) che comprende tre diritti: riproduzione, diffusione e spaccio con apparente esclusione di tutti gli altri. Si precisa come la dottrina ritenga, nell’ambito delle spettanze del fotografo, anche i diritti di elaborazione e modificazione dell’opera. Per il negativo, l’art. 89 L. A. afferma che “ La cessione del negativo o di analogo mezzo di riproduzione della fotografia comprende, salvo patto contrario, la cessione dei diritti previsti nell’articolo precedente, sempreche tali diritti spettino al cedente.” Si ha pertanto un’allargamento della identica fattispecie prevista per le fotografie creative (art. 109 L.A. secondo comma) anche ai diritti di diffusione e spaccio. La particolarità è che questa è una presunzione iuris tantum: e cioè può esser posta nel nulla da un accordo scritto tra le parti. Invece la legge sul diritto di autore si limita a normare la cessione del negativo e non spende una parola sulla cessione delle stampe. In questi tempi di digitale – nel quale le foto si trasmettono o cedono soli tramite file inviati a mezzo di strumenti informatici – sembra che la mancanza della fattispecie abbia un senso: si trasferisce il file (cioè il “negativo digitale”) e tutto è finito. Però la legge sul diritto d’autore è del 1941 e, in quei tempi, era più facile che fosse una stampa ad esser ceduta. In ogni caso, l’interpretazione sistematica delle norme sulla fotografia semplice in rapporto a tutte le altre norme sulla fotografia creativa, ci porta a concludere che qualche differenza sostanziale ci deve essere, altrimenti nemmeno la differenza (rectius: la specificazione dell’art. 88 L.A.) tra immagini semplici e creative avrebbe senso. Posto che le fotografie semplici (sempre secondo la l. 633/1941) avrebbero meno valore di quelle creative, si può ben dire che il trasferimento delle stampe non abbia differenze da quello dei i negativi. E cioè, in caso di trasferimento della stampa di una fotografia semplice, si cedano anche i diritti di riproduzione, diffusione e spaccio così come spettanti al fotografo, a meno che le parti non pattuiscono la cessione di solo uno o due di questi. E la conclusione sembra coerente con il sistema dell’equo compenso, previsto dall’art. 90 L.A. in base al quale al fotografo – qualora l’esemplare porti le indicazioni del nome e della data – spetta un prezzo per la riproduzione dell’immagine. Per cui, il diritto di autorizzare l’uso dell’immagine sottoposto alla condizione sospensiva del pagamento dell’equo compenso. 8. lo scopo della cessione Molte volte l’interprete si trova di fronte a situazioni paradossali nelle quali una rigida applicazione delle norme in materia di diritto d’autore cozzano contro lo scopo della cessione, così come le parti lo avevano pensato e voluto. A titolo di esempio, un fotografo dona tutta la sua produzione fotografica ad un archivio affinché provveda non solo a conservare le immagini (magari anche i negativi o i file raw) ma anche diffonda l’opera, sfruttandola anche economicamente. Identica ipotesi si ha quando un cittadino mette a disposizione proprie vecchie immagini in favore, per esempio, del comune dove vive per una mostra sugli aspetti perduti della città. In entrambi i casi, partiamo dal presupposto che non vi sia un atto scritto di cessione o sfruttamento dei diritti inerenti all’immagine. A ragionar stretto, le foto sarebbe inutilizzabili in quanto manca proprio quell’atto di cessione (scritto) di cui sopra si è detto e ritenuto necessario per provare l’avvenuta trasmissione dei diritti patrimoniali. Ci soccorre una teoria giuridica tedesca, la c.d. Zweckubertragungstheorie secondo la quale vi sarebbe comunque un trasferimento dei diritti patrimoniali , desumendoli dalla volontà delle parti avendo riguardo all’oggetto e allo scopo del contratto. Si osserva solo che la prova dello scopo del contratto dev’essere data con particolare rigore. Avvocato Massimo Stefanutti Diritto della fotografia e della proprietà intellettuale Riproduzione riservata ©

La dolorosa vicenda di Eluana Englaro si è conclusa; e nel solo modo in cui poteva (o doveva) finire. Per settimane le immagini di una ragazza dolce e sorridente ci hanno scrutato dalle pagine dei giornali, dal monitor della televisione o via web, suscitandoci interrogativi laceranti sulla fine della vita e sull’inizio della morte. Nelle mani di papà Englaro – per il quale la figlia era morta 17 anni fa – le sue foto avevano la funzione di ricordo e di memoria, di un tempo felice, di un’Eluana viva e vitale, splendente nella sua tuta da sci e con una vita davanti. Si sentiva, – in quelle piccole immagini tenute in mano da un uomo dallo sguardo profondo e determinato (erano lasciate in evidenza su un piccolo tavolino) – tutto il contrasto tra la realtà attuale di Eluana ed una vita fermata, più o meno, 17 anni addietro. Ecco che di colpo, le immagini di quella (non questa, anche se ora non più) Eluana venivano accostate a proclami di salvezza o ad interventi quasi divini per tutelarne la vita (o la prossima morte). Nessuno percepiva la sottile linea tra la comunicazione (di una memoria, di un sentimento, di un ricordo affettuoso) dalla mistificazione e la manipolazione dell’immagine per fini ideologici. Tutto era piegato alla necessità della bio (o tanato) politica, ma non certo a quella dell’informazione. Brandendo l’immagine di Eluana come un’icona del martirio a lei imposto, è stata impalcata un’operazione di induzione dalla quale nessuno è stato capace di sottrarsi coscientemente: era proprio possibile far morire di fame e di sete una così bella ragazza? Perché la magistratura aveva autorizzato questo? Non si poteva far qualcosa? Nessuno – sia laico che credente – davanti a queste foto si è interrogato sulla loro veridicità o sulla loro falsità. E qui – non per pretese di purezza ma quanto per togliere a quelle fotografie un loro uso distorto – non posso che esternare un’assoluta indignazione per quanto è successo e per quanto ho visto. Per fortuna (o forse per merito di papà Englaro) la differenza tra la realtà indotta e la vera condizione di Eluana mai è stata rivelata e fotografata, anche se era facilmente immaginabile, dopo 17 anni di coma. Una barriera impenetrabile (non risulta che ci siano immagini pubblicate di Eluana né prima né dopo la morte in quanto il protocollo prevedeva anche tale divieto) è stata innalzato tra lei e la curiosità morbosa del pubblico e dei giornalisti, addirittura con il divieto di portare telefonini con fotocamera dove Eluana giaceva nel suo sonno. Tutto questo non è nuovo, nella storia della fotografia: anzi si potrebbe dire che la fotografia si caratterizza (molte volte) per l’uso che se ne fa, al di là delle intenzioni dell’operatore. Esemplare è la vicenda della foto del “Che” Guevara, ripreso da Alberto Korda che è stata riprodotta ovunque, anche sulla carta igienica, con ovvio sfregio ideologico. Le foto di Eluana non sono state le prime e non saranno nemmeno le ultime di questa serie. Ma ciò che sconcerta è, alla fine, il fragoroso silenzio su questo aspetto della mortale vicenda di una povera mortale. Avv. Massimo Stefanutti Diritto della fotografia e della proprietà intellettuale © Riproduzione riservata

Sembra impossibile che simili notizie possano provenire dal paese che più ha contribuito alla tutela dei diritti personali del cittadino ma è proprio così: in un disegno di legge dell’attuale governo laburista presieduto da Gordon Brown, sono state proposte pesanti limitazioni alla possibilità di eseguire riprese fotografiche in luoghi pubblici nelle quali si possano rintracciare dei “dati privati”. Infatti secondo l’iniziativa dell’I.C.O. (Information Commissioner’s Office) se in una fotografia scattata per strada (o in un qualunque luogo pubblico) fosse ripreso un privato cittadino, questi avrebbe il diritto di impedire la pubblicazione o la diffusione dell’immagine o comunque di pretendere un compenso per poter consentirne l’uso. Se si pensa che la Gran Bretagna è il paese nel quale non vi sono attualmente limiti all’effettuazione di riprese fotografiche in luoghi pubblici o aperti al pubblico, la proposta di legge dà veramente preoccupazione. Posto che tale (per il momento futura) modifica legislativa andrebbe ad incidere in modo sostanziale sull’attività non solo dei fotogiornalisti ma pure sull’attività fotografica di chi professionista non è, sarebbe molto facile – non solo per il privato cittadino ma soprattutto per chi avesse qualcosa da nascondere (non ultimo il politico di qualunque colore) – esercitare un controllo diretto sull’informazione. Chiunque potrebbe impedire non solo la pubblicazione e la diffusione, da parte di giornali o altro, di immagini sfavorevoli (dalla frequentazione della escort di turno alla pagamento di mazzette a fini corruttivi) ma, per di più, impedendo anche la prova documentale dell’esecuzione di un reato in quanto non potrebbe esser considerata valida una prova acquisita illecitamente. Probabilmente la proposta di legge ha un contenuto più blando e vuole indirizzarsi alla protezione del “dato personale” del privato cittadino, sull’esempio della vigente legislazione italiana in materia di privacy. Nel nostro paese il Dlgs. 196/2003 ha voluto mettere un freno al trattamento non autorizzato dei dati personali: oggi tutti abbiamo a che fare (dal medico, presso i gestori di telefonia, in tribunale, ecc.) con i vari moduli che dobbiamo assolutamente sottoscrivere e con i quali autorizziamo i vari soggetti a trattare (cioè utilizzare) i nostri dati, qualunque essi siano. E, per quanto riguarda il nostro corpo, anche la nostra immagine (il ritratto o, meglio, la sembianza) è un dato personale che può essere trattato da terzi ma deve essere protetto da utilizzi illegittimi o addirittura illeciti. Per poi giungere alla necessità di un consenso scritto (e non più verbale o quanto meno implicito) qualora il nostro dato personale sia “sensibile” ed esattamente quelli idonei a rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o d’altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale. Se si fa mente locale a tale elenco, subito ci si accorge che osservando puntualmente la regola non si farebbe più una fotografia: a titolo di esempio, sarebbe necessario il consenso scritto anche per poter utilizzare l’immagine di un soggetto che porta gli occhiali, in quanto rilevatori di uno stato di salute particolare (un difetto della vista). Se poi pensiamo all’origine razziale o etnica (con evidente scivolone concettuale il legislatore non ha pensato che esiste una sola razza, quella umana) sarebbe necessario il consenso scritto se un nero fotografa un soggetto di pelle bianca ( o il contrario ), se un orientale fotografasse un indiano ( o il contrario ), ecc. Sempre in materia di differenze di culture fotografie (e non solo) in Gran Bretagna ( e così in tutti i paesi del Commonwealth ) esiste un vasto diritto di “panorama freedom”: la sezione 62 del Copyright, Designs and Patent Act del 1988 consente ai fotografi di scattare fotografie di edifici, sculture, ed opere di artigianato artistico, se permanentemente installate in un luogo pubblico o aperto al pubblico senza infrangere il copyright ed utilizzare le fotografie per qualunque scopo. Anche se poi la norma si applica alle opere tridimensionali ma non a quelle bidimensionali quali i murales, le scritte pubblicitarie, i segnali stradali. Per cui si può tranquillamente fotografare il bellissimo edifico sferico nella City Hall di Londra a firma dell’architetto Norman Foster senza violare il diritto d’autore mentre, a Venezia, non sarebbe possibile fotografare il nuovo ponte di Calatrava senza ledere il copyright dell’architetto catalano. Ma le brutte notizie da oltre Manica non finiscono qui: sembra proprio che sia un periodaccio per la fotografia inglese! Philip Dunn (un ex fotografo del Sunday Times) sull’ Online Journalism Blog, invita i colleghi alla rivoluzione se diventerà legge dello stato inglese il Digital Economy Bill, attualmente è in discussione in Parlamento. Secondo le norme internazionali e il Copyright Act del 1988 , il fotografo deve avere la piena disponibilità sui diritti del proprio lavoro: secondo la proposta modifica, se l’ autore vorrà mantenere il controllo sul suo lavoro, dovrà registrare la fotografia opera (e ciascuna versione di essa) presso una neonata Agenzia. Se ciò non avvenisse e l’immagine fosse resa in pubblico dominio dal fotografo, la fotografia potrebbe esser utilizzata da chiunque senza consenso (e senza riconoscimento della partenità) e senza riconoscimento dei relativi diritti economici, addirittura con scopi di lucro. Sarebbe il sistema del c.d. orphan work: si tratta di una foto coperta da copyright ma per la quale non si pagano diritti di autore in quanto non è possibile individuare o contattare chi li detiene. Per fortuna, qui siamo in Italia. Avv. Massimo Stefanutti Riproduzione riservata ©

La vendetta dell’icona Secondo le fonti giornalistiche più aggiornate (per un riassunto vds. Wikipedia, voce Fabrizio Corona con le fonti in calce), molte sono le condanne irrogate (anche definitive) dalla Giustizia Italiana nei confronti di tale Fabrizio Corona, autoqualificatosi e noto (non ai più) come fotografo . Molte di queste condanne sono legate a doppio filo con la fotografia: perciò ci si chiede se il Corona – alla lettura dei dispositivi da parte dei tribunali – abbia o meno inviato qualche giaculatoria a Santa Veronica , com’è noto patrona della fotografia. E non è una nostra idea: seconda Wikipedia “Santa Veronica, comunemente conosciuta come la pia donna che asciugò con un panno il volto di Gesù lungo la Via Crucis. Viene commemorata il 12 luglio. Letteralmente si identifica con il nome Veronica il fazzoletto con cui una donna asciugò il volto di Cristo (Veronica = Vera Icona).” se la fotografia sia o non sia vera icona del reale (prospettiva sempre ripresa da qualcuno) non interessa più di tanto se non per trovarci argomenti per avere una patrona alla quale rivolgersi in momenti di difficoltà. Se il Corona si sia rivolto alla Santa proprio non lo sappiamo; constatiamo solo che l’uso spregiudicato dell’immagine, come il delitto, non paga. Per verificare cosa abbia veramente fotografato il Corona abbiamo fatto un giro in rete: le informazioni giornalistiche non sono sufficientemente complete ma, leggiucchiando e guardando qui e là, qualcosa abbiamo captato. Uno dei processi era basato sugli autoritratti del Corona in carcere: corrompendo un secondino e con la complicità (così dice la sentenza) del proprio avvocato (anch’esso condannato in primo grado), fu fatta entrare dietro le sbarre una macchina fotografica “usa e getta” e con quella il predetto fece delle pose tipo set, all’interno della cella a San Vittore; fotografie che furono vendute a noti giornali di gossip e poi pubblicate (il Corona era coinvolto del caso “Vallettopoli”). Il 26.3.2012 la Corte d’Appello di Milano gli irrogava una pena di 1 anno 2 mesi e 5 giorni, poi divenuta definitiva. Il fine dell’operazione (visti i rischi corsi e le conseguenze penali) appare ignoto se non nell’ottica (sic!) di una sovraesposizione (sic!) di sé stesso. Negli altri due processi, invece, si è – per grandi linee – accusato il Corona di estorcere denaro tramite delle immagini ( i c.d. foto-ricatti) personaggi pubblici: in poche parole il nostro pedinava alcuni noti (Elkan, Trezeguet, Adriano, ecc.), eseguiva delle riprese eseguite all’insaputa ed in momenti che riguardavano la vita privata dei soggetti interessati (anche all’interno delle abitazioni), con utilizzo successivo delle immagini come merce di scambio. Di qui le condanne : il 21.10.2011 la Corte di Cassazione confermava la condanna della Corte d’Appello di Milano a 1 anno e 5 mesi per tentata estorsione ai danni dei calciatori Francesco Coco e Adriano, mentre il 18.1.2013 la Cassazione confermava in via definitiva la condanna a 5 anni di reclusione per estorsione aggravata e trattamento illecito di dati personali, per aver preteso dal calciatore David Trezeguet 25 mila euro per non pubblicare delle foto che lo ritraevano. Le cronache giudiziarie raccontano anche di un’imputazione per violazione della privacy: non si sono trovate notizie certe ma appare plausibile che i reati contestati fossero l’art. 167 D.lvo 30.6.2003 n. 196 (trattamento illecito di dati, c.d. legge sulla privacy) e/o l’art. 615 bis c.p.(interferenze illecite nella vita privata). Le due norme trattano casi giuridici diversi: la prima punisce chi tratta dati personali (la sembianza della persona può esser dato, dato personale ed anche dato sensibile ) senza il necessario consenso o in violazione delle regole sancite mentre la seconda impedisce la violazione della sfera privata del soggetto all’interno del domicilio o della dimora mediante l’uso di strumenti di ripresa visiva o sonora. Secondo una delle sentenze, le immagini delle vittime del Corona – nonostante fossero di personaggi dotati di una certa notorietà anche nazionale – non potevano esser diffuse al pubblico sia per la mancanza di consenso che per l’assoluta mancanza dell’interesse pubblico alla conoscenza dei comportamenti degli interessati, ripresi anche all’interno delle mura domestiche. In particolare non sembra nemmeno esser stato riconosciuto al Corona il diritto di cronaca (e con la possibilità di avvalersi dell’art. 25 della c.d. legge sulla privacy il quale prevede la non necessità del consenso quando il trattamento dei dati è effettuato nell’esercizio della professione di giornalista e per l’esclusivo perseguimento delle relative finalità). La motivazione (che riprende una costante giurisprudenza) afferma come tale norma possa riguardare anche chi non abbia un ruolo stabile nella formazione del messaggio giornalistico, purché il materiale raccolto abbia la funzione di illustrare un avvenimento nella esclusiva prospettiva di una pubblicazione. Non serve, in sintesi, esser iscritti all’Ordine dei Giornalisti per fare, con la fotografia, attività giornalistica. Senza addentrarsi nella disamina approfondita delle due norme, si possono fare delle considerazioni sul limite (incerto) tra privacy e diritto di cronaca giornalistica: problema già sorto per le foto del premier Silvio Berlusconi all’interno di Villa Certosa in Sardegna da parte del fotografo (questo sì, vero) Antonello Zappadu e, in tempi più recenti, per le foto di George Clooney all’interno della propria villa sul lago di Como. In sintesi la riservatezza esiste anche per il personaggio pubblico, chiunque esso sia. Le regole, dettate anche dal Garante della Privacy, sono sempre l’interesse pubblico (nell’ottica della sussistenza di un diritto ad informare) e la rilevanza del fatto, purché la necessità di documentare non leda la dignità della persona e le immagini non siano acquisite con modalità illecite. In sintesi, anche per il Corona, vale il sempre vecchio detto: gioca con i fanti ma lascia stare i santi (soprattutto se sono iconici). Avv. Massimo Stefanutti Riproduzione riservata ©

Le osservazioni di Cesare Colombo contengono molti spunti interessanti che devono esser coordinati e, soprattutto, calati nel ventre molle delle norme giuridiche italiane ed europee. Non dobbiamo dimenticare che la nostra legislazione non solo è figlia della prospettiva romanistica (e differenti sono gli approcci del common law, soprattutto più pragmatici e concreti) ma anche deve necessariamente raccordarsi con le Direttive Europee nelle varie materie, che spessissimo collidono con norme vigenti che risalgono anche a decenni prima. Per cui è necessario prima fare il punto sulla normativa esistente e poi verificare se sia possibile un’integrazione, più o meno profonda, o se sia meglio una rivoluzione. I capisaldi giuridici sono: – art. 96 e 97 L. 633/1941 (legge sul diritto di autore); – art. 10 Codice civile; – Direttiva europea n. 95/46/CE relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati; – D. Lgs. N. 196/2003 relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali (applicazione della predetta Direttiva europea); – Codice di Deontologia Giornalistica ora previsto come fonte primaria in quanto allegato 1) al D. Lgs. 196/2003. Vi sono, pertanto, due grandi macroaree, una per le persone comuni ed una per l’attività giornalistica. – 1 – Per le persone comuni nella nostra legislazione, il fulcro sono gli artt. 96 e 97 : 2 Art. 96. Il ritratto di una persona non può essere esposto, riprodotto o messo in commercio senza il consenso di questa, salve le disposizioni dell’articolo seguente. Art. 97. Non occorre il consenso della persona ritrattata quando la riproduzione dell’immagine è giustificata dalla notorietà o dall’ufficio pubblico coperto, da necessità di giustizia o di polizia, da scopi scientifici, didattici o culturali, quando la riproduzione è collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico. Il ritratto non può tuttavia essere esposto o messo in commercio, quando l’esposizione o messa in commercio rechi pregiudizio all’onore, alla riputazione od anche al decoro nella persona ritrattata. In collegamento anche con l’art 10 codice civile: Abuso dell’immagine altrui. Qualora l’immagine di una persona o dei genitori, del coniuge o dei figli sia stata esposta o pubblicata fuori dei casi in cui l’esposizione o la pubblicazione è dalla legge consentita (1), ovvero con pregiudizio al decoro o alla reputazione della persona stessa o dei detti congiunti, l’autorità giudiziaria su richiesta dell’interessato, può disporre che cessi l’abuso, salvo il risarcimento dei danni. Premesso che è possibile fotografare tutto (ed anche tutti), fatto salva un’immediata negazione allo scatto – espressione di un diritto del singolo pari ed uguale a quello del fotografo – e l’esistenza di un confine al di là del quale l’immagine non è utilizzabile, l’impianto della norma è aderente ad una prospettiva di diritto all’immagine come diritto soggettivo personalissimo inquadrabile tra i diritti della personalità ed alla sua “rinuncia” (termine qui usato in senso non giuridico) solo in presenza di un interesse pubblico (cioè legato ad un fatto che rileva per esser conosciuto da una collettività di persone indeterminata ma non indeterminabile). E di qui le varie esenzioni di cui all’art. 97. 3 La modifica potrebbe esser proprio nel rispettare tale impianto ed allargare le ipotesi di esenzione, sempre però cercando di non rendere la norma indeterminata o estremamente soggettiva quanto ad applicazione. Già l’esenzione “scopo culturale” , se ben interpretata, permette di scindere il momento del prelievo dal reale da quello dell’effettivo utilizzo in un determinato contesto e motivare così la sussistenza di un interesse pubblico alla diffusione dell’immagine. Altre due esenzioni, potrebbero essere lo “scopo sociale” e “nell’espressione artistica”. Il primo non vuol significare il fine di benessere per il singolo ma piuttosto si riferisce ad una pratica fotografica relativa all’ambiente nel quale si svolge al vita di ognuno di noi, il lavoro, il rapporto con gli altri, i contatti umani a qualunque livello, ecc. Il secondo è già contenuto come esenzione dalla normativa dal D.Lgs 196/2003, sulla privacy: “” Art. 136. Finalità giornalistiche e altre manifestazioni delpensiero 1. Le disposizioni del presente titolo si applicano al trattamento: (…) c) temporaneo finalizzato esclusivamente alla pubblicazione o diffusione occasionale di articoli, saggi e altre manifestazioni del pensiero ANCHE NELL’ESPRESSIONE ARTISTICA.” Si tratta purtroppo di una pessima e tardiva integrazione della Direttiva Europea (art. 9) laddove prevede che gli Stati membri possano prevedere, per il trattamento di dati personali, deroghe ed esenzioni qualora effettuato a scopi giornalistici o di espressione artistica o letteraria, ma solo qualora si rivelino necessarie per conciliare il diritto alla vita privata con le norme sulla libertà d’espressione. Il fine è nobile (non porre limiti di consenso alla libera manifestazione del pensiero sia essa in ambito letterario che artistico) ma la trasposizione nella legge italiana è aberrante! 4 Altro limite (ma non è una nuova esenzione quanto un vero e proprio divieto) è quello del fine di lucro nell’utilizzo dell’immagine. E’ un fine che si differenzia da quello del “profitto” (più ampio) in quanto “ deve intendersi un fine di guadagno economicamente apprezzabile o di incremento patrimoniale da parte dell’autore del fatto, che non può identificarsi con un qualsiasi vantaggio di altro genere.” ( Cass. 149/2006 ) e che appare insito nella disciplina, anche se non espressamente citato. Invece appare utile che sia ribadito, riformulando anche l’ultima parte della norma e chiarendo meglio il criterio spaziale in cui si può operare. Per cui la nuova norma dell’art. 97 (fermo invece l’art. 96) potrebbe esser così formulata: Art. 97. Non occorre il consenso della persona ritrattata quando la riproduzione dell’immagine è giustificata dalla notorietà o dall’ufficio pubblico coperto, da necessità di giustizia o di polizia, da scopi scientifici, didattici, culturali, sociali e nell’espressione artistica nonché quando la riproduzione è collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie svoltisi in pubblico o in luogo aperto al pubblico. Il ritratto non può tuttavia essere esposto o messo in commercio, quando l’esposizione o messa in commercio rechi pregiudizio all’onore, alla reputazione od anche al decoro nella persona ritrattata o vi sia fine di lucro. Se, invece, si vuol esser rivoluzionari, gli artt. 96 e 97 della L. 633/1941 dovrebbero esser sostituiti dal seguente unico articolo: “” Si possono liberamente riprodurre ed esporre immagini di beni e persone che si trovino in luogo pubblico o aperto al pubblico, purché la riproduzione e l’esposizione non rechino pregiudizio all’onore, alla reputazione od anche al decoro della persona ritrattata e, per il solo ritratto, non vi sia fine di lucro.” 5 L’inciso relativo “per il solo ritratto” è necessario in quanto – omettendolo ed estendendo l’eccezione anche ai beni – non sarebbe più possibile fotografare e poi riprodurre monumenti – o che altro – per una guida turistica o per un libro da vendere, senza il consenso dell’avente diritto sul bene. La dizione della norma sarebbe anche compatibile con il principio del diritto all’immagine quale diritto della personalità e, in particolare, come manifestazione del diritto alla riservatezza. In tal senso, la norma valorizzerebbe la c.d. “expectation of privacy” (metodologia usata nei paesi di common law per valutare le violazioni alla riservatezza) in quanto permetterebbe di dividere l’aspettativa di un soggetto di far o non far riprodurre la propria immagine in due grandi aree: quella pubblica e quella privata, quella davanti agli occhi di tutti e quella sottratta agli occhi di tutti e ciò in base al semplice gesto volontario di presentarsi o meno in pubblico. Per cui massima sarebbe la riservatezza (e quindi il divieto di carpire e riprodurre la propria immagine in luoghi privati) mentre minima o inesistente lo sarebbe in luogo pubblico o aperto al pubblico. In ogni caso sarebbe mantenuto il limite della reputazione della persona oltre all’assoluto divieto di utilizzare il ritratto della persona, senza il consenso della medesima, per fini di lucro. Inoltre, l’ampiezza di tale norma sarebbe notevole in quanto comprende non solo le persone ma anche i “beni”, sia mobili che immobili, materia sulla quale non esiste norma specifica nella legislazione italiana, ad eccezione di quanto contenuto nel Codice dei Beni Culturali in materia di opere d’arte. E soprattutto vi sarebbe un superamento (anche qui rivoluzionario) delle norme in materia di diritto di riproduzione relativamente ai beni mobili ed immobili sottoposti alla disciplina del diritto di autore, in quanto non ancora decorsi i 70 anni dalla morte dell’autore, attualmente vietata senza consenso dell’avente diritto. 6 Ma questa nuova impostazione aderirebbe maggiormente alla più avanzate concezioni giuridiche sui “commons” e sul superamento del dato della “proprietà” come fondamento del diritto di disposizione (dell’autore o del proprietario) su un bene. – 2 – Per l’attività giornalistica, la normativa esistente è chiara, coerente e cerca sempre il punto di equilibrio (spesso difficile e soggetto a mille mutamenti) tra esigenze di informazione e diritto alla riservatezza del singolo, soprattutto se personaggio pubblico. Norme poi integrate da copiosa giurisprudenza tra le quali la sentenza della Corte di Cassazione n. 5259 del 18.4.1984 (c.d. decalogo del giornalista) nella quale sono stati definiti i tre parametri per l’esercizio della libertà di diffondere notizie e commenti ed esattamente l’utilità sociale dell’informazione, la verità dei fatti esposti, la continenza formale. Poi con il Codice di Deontologia Giornalistica ora previsto come fonte primaria in quanto allegato 1) al D. Lgs. 196/2003, in 13 articoli, sono stati normati e dettagliati i principi essenziali della professione giornalistica. Rilevantissimo è non solo l’art. 6 (“la sfera privata delle persone note o che esercitano funzioni pubbliche deve essere rispettata se le notizie o i dati non hanno alcun rilievo sul loro ruolo o sulla vita pubblica”) che stabilisce un confine (spesso incerto ma sufficientemente preciso) tra informazione e riservatezza (e questo vale soprattutto per la fotografia), ma soprattutto appare importantissimo l’art. 13 che tratta dell’ambito di applicazione e delle sanzioni disciplinari. Dice la norma: “” Le presenti norme si applicano ai giornalisti professionisti, pubblicisti e praticanti a e chiunque altro, anche occasionalmente, eserciti attività pubblicistica.”” 7 Se per attività pubblicistica, il riferimento è all’art. 1, comma IV° della legge n. 69/1963 (Sono pubblicisti coloro che svolgono attività giornalistica non occasionale e retribuita anche se esercitano altre professioni o impieghi) e, de relato, non esistendo una compiuta definizione di attività giornalistica, ci si deve interrogare se il “fotoreporter” sia destinatario (ed osservatore) del predetto Codice di Deontologia. Pochi sono i “fotoreporter” che siano anche giornalisti iscritti agli Ordini italiani: così non vi sarebbe alcun problema interpretativo. Ma, sul punto, non penso che ci possano esser opposizioni sul fatto che anche il “fotoreporter” (che scrive con la luce) debba osservare le regole stabilite per chi scrive a penna. Però dobbiamo domandarci chi sia il “fotoreporter”: negli ultimi anni si sono andati diffondendo sempre più non solo le macchine fotografiche digitali ma anche la camera fotografica è contenuta in tutti i telefoni cellulari che ognuno di noi ha in tasca, trasformandoci tutti in possibili testimoni di fatti ed avvenimenti di cronaca. In sintesi, il “citizen journalism” ha fatto la sua comparsa: basti far mente locale alle rivoluzioni arabe (o anche a tanti fatti di cronaca locale) documentate non tanto da fotoreporter titolati quanto dalle semplici immagini del popolo, più o meno rivoluzionario. Penso fondatamente che ognuno di noi debba, nel momento in cui si investe del ruolo di giornalista (anzi: occasionale pubblicista) debba sottoporsi (volente o nolente) a quelle regole etiche (e giuridiche) che quell’atto di fotografare impone. – 3 – La legge sulla “privacy” Bisogna premettere che la normativa sulla privacy dev’esser ben delimitata nel suo campo di applicazione: la Direttiva Europea, al XV° 8 considerando, afferma come “il trattamento dei suddetti dati rientra nella presente Direttiva soltanto se è automatizzato o se riguarda dati contenuti, o destinati ad esser contenuti, in un archivio strutturato secondo criteri specifici relativi alle persone, in modo da consentire un facile accesso ai dati personali di cui trattasi”. Inoltre, al XII° considerando, “deve esser escluso il trattamento di dati effettuato da una persona fisica nell’esercizio di attività a carattere esclusivamente personale o domestico”. Ed ancora, sono da rilevare le esenzioni per l’attività giornalistica e per le manifestazioni del pensiero, sia letterario che artistico. I beni giuridici della protezione dei dati personali e della riservatezza non sono completamente assimilabili tra loro: il diritto alla riservatezza è una parte nelle norme sulla protezione dei dati personali ma non la esauriscono. Il secondo è contenuto nel primo. La legislazione italiana accoglie tali elementi ma si pone il problema del coordinamento tra queste norme e gli artt. 96 e 97 L.A. Vi è recente sentenza (Cass. 12997/2009) “l’immagine di una persona, pur possedendo capacità identificativa del soggetto, quando viene trattata non integra automaticamente la nozione di dato personale agli effetti del D. Lgs. 196/2003, ma lo diviene qualora chi esegua il trattamento lo correli espressamente ad una persona mediante didascalia od altra modalità, quale un’enunciazione orale, da cui è possibile identificarla, restando invece irrilevante, in mancanza di tali indicazioni, la circostanza che chi percepisce l’immagine sia in grado per le sue conoscenze personali, di riconoscere la persona ritrattatta.” Ma è una sentenza che non convince in quanto nega la qualità di dato personale alla sola immagine, in contrasto con la medesima Direttiva Europea. E, inoltre, nulla vieta che vi sia un archivio strutturato solo sulle immagini e sui loro contenuti (per esempio, gli occhi azzurri o il colore della pelle) con una identificazione (classificazione) indiretta dei soggetti. 9 Oppure che, comunque, si giunga ad una identificazione di persone (o luoghi) anche senza dati specifici: sia sufficiente pensare ai dati che rivela un’iniziativa come GoogleStreet. Però vi è una rilevante differenza giuridica tra identificabilità e riconoscibilità: per cui, anche se la sentenza non appare convincente sotto il profilo della coerenza con la normativa europea, lo è invece sotto quello sistematico interpretativo all’interno dell’attuale normativa italiana. Per cui, la foto “anonima” (nel senso che la persona non è identificabile) non è da considerarsi dato personale. Vi sono, pertanto, sono due modi di coordinare: a) gli artt. 96 e 97 L.A. esauriscono la problematica del consenso nel ritratto e la legge sulla privacy non si applica, riguardando altro settore, quello della mera conservazione (trattamento) dei dati all’interno di un archivio per i quali serve un consenso, anche scritto se riguarda dati sensibili (la citata sentenza di Cassazione applica questo principio); b) le norme sulla privacy sono integrative a quelle degli arrt. 96 e 97 nel senso che, in caso di dati sensibili, il consenso va necessariamente reso per iscritto. Personalmente mi oriento per la seconda soluzione, sulla base della considerazione che, se il dato personale (il ritratto) è contenuto in un archivio di un fotografo (anche la memory card è già un archivio?), nel momento in cui il dato deve esser trattato (diffuso), vi dovrà esser consenso, anche scritto se relativo a dati sensibili. Ma, se adottiamo la nuova formulazione dell’art. 97 ci accorgiamo che le norme sulla privacy sono inapplicabili nel momento in cui la ripresa è stata eseguita in luogo pubblico o aperto al pubblico e per i fini indicati; oppure, nella variante rivoluzionaria, quando vi è volontaria esposizione del sé al pubblico. La differenziazione potrà esser nel momento di ripresa: una foto di un malato in luogo pubblico potrebbe non esser soggetto a consenso ma la foto di un malato in luogo privato sì. La conclusione sarebbe paradossale e la soluzione dev’essere un’altra ed esattamente la 10 necessità di un consenso quando vi siano le situazioni indicate come dati sensibili (ragionando bene sull’applicazione dei singoli casi) e nelle quali, comunque, vi sia un’alta aspettativa di privacy. Per cui, nessuna proposta di modificazione o rivoluzione delle norme attuali del D.Lgs. 196/2003. E ciò anche perchè si profila all’orizzonte una nuova Direttiva Europea che vuol metter ordine nella caotica applicazione della privacy da parte degli Stati membri. Questa Direttiva (sono state appena pubblicate le linee guida da parte del Commissario Europeo alla Giustizia, Viviane Reding) contiene già alcune prospettive che faranno tremare la fotografia: l’attivazione del c.d. diritto all’oblio sui dati personali, norma pensata in special modo per i social network ma che riguarda i dati di tutti noi in rete, nella quale “non si muore mai e tutto viene ricordato”. E se qualcuno volesse applicare il diritto all’oblio alla propria immagine? Avremo nomi senza volto oppure volti senza nome! – 4 – – I minori La problematica è delicata e, anche qui, occorre iniziare dalla normativa e dai principi ivi contenuti: – Convenzione sui diritti del fanciullo (New York, 1989); – art. 96 e 97 L. 633/1941 (legge sul diritto di autore); – art. 10 Codice civile; – Direttiva europea n. 95/46/CE relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati; – Dlgs. N. 196/2003 relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali (applicazione della predetta Direttiva europea); – Codice di Deontologia Giornalistica ora previsto come fonte primaria in quanto allegato 1) al Dlgs. 196/2003. 11 – Carta di Treviso (1990) ora ammessa come fonte primaria con il D. Lgs. 196/2003; – Testo unico sui media, D.Lgs. 177/2005 ora modificato dal D.Lgs. 44/2010. – DPR 447/1988 sul processo penali con imputati minorenni. – Codice penale (art. 734 bis cpp) e di procedura penale (art. 114 e 472 cpp); Il principio che deve esser sempre tenuto presente è quello del “superiore interesse del fanciullo ” sempre preminente in tutte le situazioni che lo riguardano per cui, in caso di bilanciamento di interessi in conflitto, questo interesse superiore deve prevalere. E si deve considerare il minore non solo oggetto di tutela (in situazioni dalle quali vi potrebbe esser un pericolo) ma anche come soggetto attivo, con specifica relazione al media utilizzato (internet, social network, blog, ecc.) in quanto – anche inconsapevolmente – rinunciatario ad una tutela. L’ulteriore problema è di definire il “fanciullo” e individuare un’età nella quale vi sia una maturazione tale da permettere un approccio consapevole alla tematica della riservatezza ed al consenso nell’immagine. Il nostro ordinamento individua il fanciullo nel minore di età: per cui, prima del diciottesimo anno di età, il consenso dev’esser dato dagli esercenti la potestà. Addirittura si afferma come debba esser anche acquisita l’autorizzazione del Giudice Tutelare, ex art. 320 c.c., trattandosi di disposizione di un diritto personalissimo del minore. Il nostro ordinamento conosce molti casi nei quali il minore è autorizzato e comunque può compiere validi atti giuridici (ad esempio l’esercizio di un’attività commerciale dopo il compimento del 14° anno di età, il matrimonio, ecc.): per cui si potrebbe individuare un’età prima della quale è comunque necessario il consenso dell’esercente la potestà e dopo la quale il minore può dare il proprio consenso. Si ritiene, visti i ragazzi di oggi, individuare tale età nel 16 anni. 12 Pertanto, riprendendo le prospettazioni più sopra esposte, resta la problematica si potrebbero coordinare così le nuove norme proposte: a) all’art. 97, si potrebbe aggiungere un comma specifico per i minori: “In deroga alle esenzioni di cui al comma primo, il consenso all’esposizione, alla riproduzione e messa in commercio del ritratto di un minore di anni 16 può essere concesso esclusivamente dall’esercente la potestà ed in presenza di un interesse superiore del minore medesimo. Dopo il compimento del 16° anno di età, tale facoltà è attribuita esclusivamente al minore medesimo.” b) se poi vogliamo invece adottare la nuova norma, il concetto non può esser diverso, proprio per la finalità di tutela del minore. Per cui il comma da aggiungere sarebbe il seguente: ““In deroga al comma primo, il consenso all’esposizione, alla riproduzione e messa in commercio del ritratto di un minore di anni 16 può essere concesso esclusivamente dall’esercente la potestà ed in presenza di un interesse superiore del minore medesimo. Dopo il compimento del 16° anno di età, tale facoltà è attribuita esclusivamente al minore medesimo.” Ferme, comunque, tutte le altre norme dettate per la professione giornalistica, per i media, ecc. @@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@ @@@@@@@@@@@ Riassumendo, ecco le nuove possibili norme (l’art. 96 resta invariato): Art. 96. Il ritratto di una persona non può essere esposto, riprodotto o messo in commercio senza il consenso di questa, salve le disposizioni dell’articolo seguente. Dopo la morte della persona ritrattata si applicano le disposizioni del secondo, terzo e quarto comma dell’art. 93. Art. 97. 13 Non occorre il consenso della persona ritrattata quando la riproduzione dell’immagine è giustificata dalla notorietà o dall’ufficio pubblico coperto, da necessità di giustizia o di polizia, da scopi scientifici, didattici, culturali, sociali e nell’espressione artistica nonché quando la riproduzione è collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie svoltisi in pubblico o in luogo aperto al pubblico. Il ritratto non può tuttavia essere esposto o messo in commercio, quando l’esposizione o messa in commercio rechi pregiudizio all’onore, alla reputazione od anche al decoro nella persona ritrattata o vi sia fine di lucro. In deroga alle esenzioni di cui al comma primo, il consenso all’esposizione, alla riproduzione e messa in commercio del ritratto di un minore di anni 16 può essere concesso esclusivamente dall’esercente la potestà ed in presenza di un interesse superiore del minore. Dopo il compimento del 16° anno di età, tale facoltà è attribuita esclusivamente al minore medesimo. In alternativa (preferibile): Si possono liberamente riprodurre ed esporre immagini di beni e persone che si trovino in luogo pubblico o aperto al pubblico, purché la riproduzione e l’esposizione non rechino pregiudizio all’onore, alla reputazione od anche al decoro della persona ritrattata e, per il solo ritratto, non vi sia fine di lucro. In deroga al comma primo, il consenso all’esposizione, alla riproduzione e messa in commercio del ritratto di un minore di anni 16 può essere concesso esclusivamente dall’esercente la potestà ed in presenza di un interesse superiore del minore.

Postfazione giuridica

(in calce al libro fotografico “Saluti da Pinetamare” di Salvatore Santoro, Ed. Self, 2012)

La fotografia italiana è dominata da un dogma: il “diritto alla propria immagine”, come diritto personalissimo, assoluto, inattaccabile ed inaccessibile se non in casi particolari, compiutamente previsti e normati. Dogma, il più delle volte, mal interpretato ed ampliato a dismisura, spesso per ignoranza delle norme fondamentali: così i fotografi (in Italia) sono terrorizzati dalla “privacy” (qualunque significato possa assumere questo termine anglofobo), dal consenso del soggetto ripreso, dalla necessità della liberatoria per poter esporre o pubblicare una fotografia. Ma se tutto questo poteva esser giustificato negli anni ‘40 [ l’art. 10 Codice Civile (1) è del 1942, mentre gli artt. 96 (2) e 97 della L. 633 sono del 1941 (3) e tutti esprimono il concetto dell’impossibilità di esporre, riprodurre e mettere in commercio il ritratto (le sembianze…) senza il consenso dell’interessato salvo eccezioni particolari ], il progredire della società e le differenti esigenze informative e di comunicazione e, non ultime, le novità tecnologiche, devono far differentemente interpretare queste norme. E non solo: il D. lgs. 196/2003 (la c.d. legge sulla privacy) ha inserito fattispecie di esenzione dal consenso che incidono grandemente sul dogma enunciato in apertura. Già un’interpretazione innovativa (ma coerente con il sistema) della funzione “culturale” dell’esenzione contenuta nell’art. 97 L. 633/1941 può dare buoni spunti: la fotografia è un media complesso, capace ed contemporaneamente incapace di trasmettere informazioni e valori, anche culturali. Facile con un’immagine descrivere qualcosa che riteniamo diverso da noi in quanto appartenente ad una differente area geografica o sociale, difficile far comprendere con un’immagine (se non con un testo a supporto) la complessità della realtà che ci sta davanti. Spesso la fotografia (sia per problemi di comunicazione che di lettura da parte del fruitore) non parla ma si vorrebbe che parlasse da sola. Ed anche per le sembianze di una persona, quanto detto non cambia: il ritratto di una persona può aver diverso significato (e il significato è l’uso che se ne fa) se esposto in mostra amatoriale (qui serve il consenso) piuttosto che invece in un’esposizione per documentare le mutazioni nel tessuto sociale di un quartiere o di una città (qui non serve il consenso). Per cui “culturale” significherebbe un uso informativo e nello stesso tempo rappresentazione all’interno di un contesto complesso, se non addirittura di un progetto preliminarmente precisato. Se poi connettiamo insieme la disciplina specifica sull’attività giornalistica e le altre manifestazioni del pensiero [gli artt. 136 e 137 D. lgs. 196/2003 (4)], il dogma può ancora venir rimodellato e circostanziato ad una serie specifica di situazioni nelle quali sia realmente necessario il consenso per l’esposizione delle sembianze di una persona. Così, grazie alle nostre macchinette digitali e ai telefonini dotati di camera (che portiamo sempre con noi), possiamo consideraci tutti “giornalisti” nel momento in cui tendiamo a “informare” e a “descrivere” realtà ed a trasmettere tutto questo a chiunque. Purché questa informazione avvenga in modo preciso, sincero e globale: nessuna differenza tra il giornalista con la penna e quello con la macchina fotografica, nessuna necessità di chiedere consensi per descrivere il mondo che ruota intorno a noi, nei suoi aspetti positivi o negativi che siano. Il ruolo del giornalista e del fotoreporter (dando al termine una valenza assolutamente non spregiativa) si fondono con un risultato unico: il reportage diventa arma di denuncia, le fotografie urlano tutta la contestazione della società civile contro chi usa (o ha usato) uomini e cose per scopi speculativi o illeciti ed ha ridotto tutto quanto a degrado ambientale ed umano. Questo è il ruolo “alto” della fotografia, che non può essere sepolta e fermata da censure preventive e successive, quali la necessità di un ipotetico consenso. Avv. Massimo Stefanutti Diritto della fotografia e della proprietà intellettuale www.massimostefanutti.it © Riproduzione riservata (1) Art. 10 Codice Civile Abuso dell’immagine altrui Qualora l’immagine di una persona o dei genitori, del coniuge o dei figli sia stata esposta o pubblicata fuori dei casi in cui l’esposizione o la pubblicazione è dalla legge consentita, ovvero con pregiudizio al decoro o alla reputazione della persona stessa o dei detti congiunti, l’autorità giudiziaria su richiesta dell’interessato, può disporre che cessi l’abuso, salvo il risarcimento dei danni. (2) Art.96 L. 633/1941 Il ritratto di una persona non può essere esposto, riprodotto o messo in commercio senza il consenso di questa, salve le disposizioni dell’articolo seguente (3) Art.97 L. 633/1941 Non occorre il consenso della persona ritrattata quando la riproduzione dell’immagine è giustificata dalla notorietà o dall’ufficio pubblico coperto, da necessità di giustizia o di polizia, da scopi scientifici, didattici o culturali, o quando la riproduzione è collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico. Il ritratto non può tuttavia essere esposto o messo in commercio, quando l’esposizione o messa in commercio rechi pregiudizio all’onore, alla reputazione od anche al decoro della persona ritrattata. (4) Art. 136 D. lgs. 196/2003:. Finalità giornalistiche e altre manifestazioni del pensiero 1. Le disposizioni del presente titolo si applicano al trattamento: a) effettuato nell’esercizio della professione di giornalista e per l’esclusivo perseguimento delle relative finalità; b) effettuato dai soggetti iscritti nell’elenco dei pubblicisti o nel registro dei praticanti di cui agli articoli 26 e 33 della legge 3 febbraio 1963, n. 69; c) temporaneo finalizzato esclusivamente alla pubblicazione o diffusione occasionale di articoli, saggi e altre manifestazioni del pensiero anche nell’espressione artistica. Art. 137. Disposizioni applicabili 1. Ai trattamenti indicati nell’articolo 136 non si applicano le disposizioni del presente codice relative: a) all’autorizzazione del Garante prevista dall’articolo 26; b) alle garanzie previste dall’articolo 27 per i dati giudiziari; c) al trasferimento dei dati all’estero, contenute nel Titolo VII della Parte I. 2. Il trattamento dei dati di cui al comma 1 è effettuato anche senza il consenso dell’interessato previsto dagli articoli 23 e 26. 3. In caso di diffusione o di comunicazione dei dati per le finalità di cui all’articolo 136 restano fermi i limiti del diritto di cronaca a tutela dei diritti di cui all’articolo 2 e, in particolare, quello dell’essenzialità dell’informazione riguardo a fatti di interesse pubblico. Possono essere trattati i dati personali relativi a circostanze o fatti resi noti direttamente dagli interessati o attraverso loro comportamenti in pubblico.

Quando si entra in una grande fiera internazionale come Paris Photo, molti di noi credono di carpire i segreti della fotografia contemporanea. Dopo la visita alle prime dieci gallerie, si comprende come la globalizzazione e la mondializzazione dell’immagine non abbiano fatto bene per la comprensione del fenomeno. La confusione dei generi è al massimo, così come quella dei formati: si va dalla fotografia fatta con la Photomaton delle dimensioni di 3×5 cm. (intitolata “autoritratto (!) di un cane”) alle foto di Jurgen Teller formato 5×2 mt. includenti ex modella nuda ed avvizzita. Poca luce anche la fotografia di ricerca (sul linguaggio della fotografia), presente solo in tre gallerie su centocinquanta. Per prima, un lavoro del francese Paul Thorel (Galleria Guido Costa Project) che presenta un’opera di 5×3 mt. che da lontano sembra una fotografia di un panorama lacustre in un delicato tono di grigio ma che, da vicino si rivela…un tappeto, appeso al muro. Non sappiamo quanti visitatori abbiano colto la sottile ironia (dell’autore e/o del gallerista): la fotografia è, oramai, un oggetto di arredamento e non più finestra o specchio del mondo; per cui, al diavolo i problemi di vintage o di tiratura, una fotografia serve solo per decorare le pareti di casa!! Poi l’argentina Graciela Sacco (Galleria Rolf Art) che presentava un’installazione intitolata “Incrostazioni fotografiche su tavole di legno trovate (pezzo unico)”. In sostanza, delle assi di legno con applicato un supporto fotografico sul quale si è 2 stratificata una qualche traccia di realtà (se non mettevano la didascalia si poteva scambiarle per delle assi abbandonate al momento del montaggio dello stand). Anche qui, una sottile ironia e la riproposizione di un percorso già appartenuto alla storia della pittura: basta con le fotografie stampate sulla carta, passiamo alle fotografie applicate su qualunque materiale (speriamo che il prossimo anno qualcuno non si pensi alle fotografie di Korda o di Burri, rappresentanti Che Guevara, stampate sulla carta igienica!). Terza sorpresa, alla galleria Brancolini Grimaldi (una delle due gallerie italiane in fiera), una piccola installazione di Claire Strand (Color in motion, 2013) definita come in “Beskpoke electronic mutoscope with 50 6×4” photographic exposed paper panels”: cioè 50 carte fotografiche (nelle variazioni dal nero profondo al grigio chiaro) che ruotavano vorticosamente attorno ad un asse (affascinante nella sua dimensione concettuale: la realtà, anche in bianco e nero, è fatta di sfumature). Per il resto, la fotografia italiana quasi non esiste: qualche Ghirri, “autentico” in quanto proposto con fotografie ristampate dalla vedova (perlomeno è quello che ci è stato detto nella galleria parigina Sage), alcune foto di Massimo Vitali, di Martina Bacigalupo, una di Giuseppe Cavalli (piccola, bellissima – si riconosceva la spiaggia di Senigallia – anche firmata), in uno stand di un libraio di New York. Veramente troppo poco ma la spiegazione può essere la poca credibilità dei fotografi italiani all’estero, nel senso che il loro 3 prodotto può essere anche di ottimo livello, quella che non va è la gestione successiva. Poco viene ritenuto alla vista, se non le sempre eterne fotografie delle origini proposte dalla Galleria Hans P. Kraus, Jr. Inc (tra cui un calotipo di Fox Talbot esposto in fac-simile, con l’originale da vedere su richiesta); una stampa negativa (unica al mondo) di “Dovima with elephant” di Richard Avedon ed una “Moonrise, Hernandez, New Mexico”, 1941, di Ansel Adams, dichiarata “originale” ma che non sembrava certo una stampa del 1941, anno di ripresa; la sempre eterna esposizione di vintage presso la Galleria Francoise Paviot, massima esperta di Francia sulla fotografia tra la prima guerra mondiale e gli anni ’50. Banditi in ogni possibile forma, il sangue e la povertà: in fondo il collezionista sembra averne abbastanza, di questi argomenti, visti attraverso la televisione ed internet e non se li vuole anche trovare nei cassetti o sui muri di casa! Da voci di corridoio, nella prossima edizione ci sarà anche una sezione video, così come introdotta a Paris Photo Los Angeles, nella primavera di quest’anno. In fondo, un’edizione di Paris Photo che guardava non solo alle gallerie specializzate ma anche alle gallerie non specializzate: in una parola, il tentativo di far vedere, nella sua globalità, la foto contemporanea, da qualunque punto la si consideri. Ma Parigi, in questo periodo, non è solo Paris Photo: in quest’anno non vi è il “Mois de la Photo” ma non se ne è sentita la mancanza. La concorrenza, innanzitutto: “Fotofever” (semplicemente 4 orribile come nome, sicuramente odiato dai francesi), fiera di gallerie (soprattutto belghe svizzere e giapponesi) installata negli spazi del Carrousel du Louvre, dove fino a tre anni prima vi era Paris Photo, con proposte nuove, quasi adrenaliniche. L’Italia era ben rappresentata da tre gallerie (Sabrina Raffaghello di Alessandria, Riccardo Costantini di Torino, Paola Sosio di Milano), tutte con autori nostrani (anche il padovano Marco Maria Zanin) che ben figuravano accanto alle altre gallerie straniere. In una di queste (di Lugano) degli esemplari splendidi di Luigi Ghirri, dai colori delicati e soffusi, tipici della sua fotografia; in altre gallerie proposte autoriali, coraggiose ed intriganti, con un buon risultato di pubblico e di vendite. E poi, il resto di Parigi: a Saint Germain-des-Prés, un festival di fotografia organizzato dalla centinaia di gallerie locali, eccezionale per scelta degli autori: su tutte, le stampe post-mortem delle opere di Vivianne Maier (babysitter nella vita vissuta) e scoperta come grande fotografa di street photography solo dopo la morte, tra Lisette Model. Lee Friendlander e Diane Arbus. E poi “Photovintage”, un mercatino di fotografie vintage; e l’Off Print, all’Ecole des Beaux Arts, un salone della piccola e media editoria fotografica indipendente. Da “Le Bal” (in Place de Clichy) – oramai il luogo più frequentato della fotografia parigina – Mark Cohen, fotografo surreale e destrutturato, per un grande esempio di fotografia di strada. 5 Ma il momento più importante del periodo, sono state le aste di fotografia: ma non tanto la fotografia contemporanea di Christie’s, quanto la dispersione (parziale) dei “Fonds photographique de l’Institut Catholique de Paris”. Codesta è una grande istituzione cattolica (con scuola, campus, ecc.) che nel corso di decenni ha avuto migliaia di donazioni fotografiche, solo in tempi recenti riordinate e valorizzate. Per finanziare le attività sociali e il nuovo campus (la spending reviù è attiva anche in Francia) si è deciso di alienare parte dei fondi fotografici. L’asta è stata tenuta da Ader Nordmann, presso Drouot, domenica 17 novembre: tra i lotti in vendita, ampia scelta di foto veneziane di Naya e Bresolin, a prezzi accessibili (in base d’asta). Per ultimo, sempre tramite Ader Nordmann, presso Drouot, il 30 novembre un’importante asta di libri fotografici; si tratta della messa in vendita dell’intera biblioteca di Jean-Pierre e Claudine Sudre, due eminenti storici della fotografia francese: pezzi unici, spesso controfirmati dai fotografi medesimi, a prezzi tra i 100 € e 2000 € (base d’asta). Avv. Massimo Stefanutti © Riproduzione riservata

Nel mercato c’è sempre un venditore ed un compratore; ma spesso c’è anche un intermediario (una galleria, una casa d’aste, un curatore, ecc.) e tutti interagiscono tra loro con rapporti che spesso sono puri comportamenti approfittativi o adattativi o compulsivi alle situazioni ma che normalmente, hanno riflessi nel mondo del diritto. Una compravendita di un’opera d’arte è pur sempre un contratto regolato da precise norme giuridiche preesistenti. Vorrei qui esporre tre brevi casi per capire come si relazionano l’etica e il diritto, intendendo qui l’etica nella sua accezione meramente descrittiva, quale puro comportamento che, in molte occasioni, si trasforma e si dilata nel diritto. Alla Biennale di’Arte Contemporanea, in Venezia nel 2013, nel Padiglione Italia, è stato riproposto “Viaggio in Italia” con 20 foto di Luigi Ghirri ed altri pannelli con fotografie degli altri autori partecipanti a quel progetto (1). Guardando le fotografie di Ghirri esposte nel Padiglione “Italia”, sento che c’è qualcosa che non va: sembrano troppo nuove e belle, sono molto fredde, molto diverse da quel “prelievo di spazialità e sospensione” che è il marchio di fabbrica della fotografia ghirriana. Le didascalie a lato delle immagini così narrano: Luigi Ghirri, stampe cromogeniche 2013 © Eredi Luigi Ghirri 2 e si sanno leggere le didascalie – visto che Ghirri è morto nel 1992 – ci si chiede da parte vengano fuori queste foto. Posto che anche la vedova di Ghirri, la sig.ra Paolo Borgonzoni Ghirri, è morta alla fine del 2011 e che tutto l’archivio è stato donato all’Istituto Beni Culturali della Regione Emilia Romagna (è conservato ora presso la Fototeca della Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia), le foto non possono che venire fuori da lì e non possono essere che delle ristampe da negativi o da diapositive originali o delle scannerizzazioni da stampe oppure (orrore) da libri. Premessa la libertà chi è proprietario del predetto fondo fotografico di fare quello che vuole delle proprie cose (che qui non si vuole discutere il senso complessivo dell’operazione – lodevole riproporre “Viaggio in Italia” – salvo dire che, esposto in quel modo, si sconvolge non solo l’ambito temporale ma anche la collocazione dell’opera nell’ambito della storia della fotografia italiana) la prima osservazione è sulla mancanza di informazioni in quanto: a) non viene detto che non si tratta di “foto originali”; b) non vengono dati i dati di nascita e morte dell’autore; a) non si informa che si tratta di ristampe contemporanee, da qualunque supporto provengano. Non dare queste informazioni essenziali (siamo alla Biennale d’Arte Contemporanea, non ad una mostra in oratorio) penso sia un palese errore etico. Se poi si conosce il retroscena di questa operazione, l’errore appare ancor più rilevante: infatti al momento dell’inaugurazione della Biennale, le “vere” foto di Ghirri di “Viaggio in Italia” erano 3 state esposte ma vi era stato un immediato intervento della Sopraintendenza dei Beni Culturali che ne aveva imposto il ritiro dall’esposizione in quanto non erano soddisfatte le minime condizioni di sicurezza per la conservazione delle opere. Di qui – per quanto consta – la sostituzione delle fotografie di Ghirri con altre, ristampate di corsa (per quanto siamo venuti a sapere) e non sappiamo se da negativi originali o scannerizzando copie o pagine di libri. Ma, tralasciando qualche acida osservazione che si potrebbe fare sul rispetto filologico che si dovrebbe avere – depositari ed eredi in primo luogo – dell’opera di Ghirri, le considerazioni sono altre. La mancanza di informazione induce sempre il fruitore in errore: se poi questo fruitore è un compratore, le conseguenze sono ancora più nefaste. Quando si acquista una fotografia (di Ghirri o di altri), si presume che sia una “foto originale” (e qui originale assume vari significati – spesso è contrapposto a copia – tra i quali la provenienza dalla mano dell’autore il quale l’ha pensata, scattata e stampata così come era, da lui medesimo): e provenienza vuol dire paternità e paternità vuol dire – prima di tutto – diritto morale d’autore. Ma che vuol dire autore in fotografia? Io penso che l’autore sia quello che ha voluto il risultato finale – l’immagine sul supporto – anche se nel processo meccanico di produzione qualcun altro ci abbia messo la mano. 4 Il fotografo, una volta, si faceva da solo la stampa in camera oscura, adesso nessuno si fa da sé le stampe lambda: va in laboratorio e segue il processo per arrivare ad un risultato finale soddisfacente ed accettato. Nel caso che ci ha dato lo spunto, siamo qui di fronte ad una ristampa post-mortem (neppure dichiarata come tale): vale ancora la definizione di “Autore: Luigi Ghirri” ? Vi è palese dissociazione tra chi ha fatto e l’autore, manca una parte: il controllo e l’accettazione finale dell’opera da parte di quest’ultimo, addirittura con interventi del terzo in post-produzione sul file, con la tecnologia attuale. C’è il negativo, certamente una stampa, ma manca – in gran parte – il processo creativo ed il filtro dell’autore: manca l’aura (e qui, si sente). La domanda me la faccio dal punto di vista del diritto della fotografia: in altre arti la risposta è scontata. Pollock non risorge dall’oltretomba e ci fa un altro dipinto con la tecnica del dripping. Ma in fotografia, dove la riproducibilità è, per le moderne tecnologie, l’operazione più semplice in assoluto, il problema si pone ed è irrisolto. La questione può, quindi, esser esaminata da due prospettive differenti: a) sostanziale: è ancora opera dell’autore la ristampa di una foto post-mortem? La mia risposta è negativa: dovrei dire “ristampa di foto di Luigi Ghirri tratta da negativo conservato presso 5 Biblioteca Panizzi, eseguita dopo la morte, nel 2013, eseguita da…”. b) formale: il diritto d’autore italiano non dà una definizione di autore: dice solo (art. 8 L. 633/1941) : “E’ reputato autore dell’opera chi in essa è indicato secondo le forme d’uso”. Ed è una presunzione, che ammette la prova contraria. Per cui non solo io posso dire d’essere autore di una fotografia (a torto o a ragione), ma altri possono appiccicarmi (indicarmi…) l’etichetta di autore, anche quando sono morto. In un contenzioso (in caso di un’eventuale vendita sul mercato di una delle fotografie di questo caso) addirittura si potrebbe contestare la riferibilità all’opera di Luigi Ghirri e, pertanto, alla sua qualifica di “autore”. Ma qui entra in discorso un altro aspetto, strettamente correlato: quello dell’autentificazione e della certificazione dell’opera. Sul catalogo on line dell’asta di fotografia contemporanea a Parigi di Christie’s di metà novembre 2013, ogni foto riporta non solo chi vende (la casa d’aste è sempre un intermediario) ma anche da chi il venditore ha acquisito la fotografia. Spesso c’è scritto: acquistata direttamente dal fotografo. Si ricostruisce la filiera onde evitare problemi non solo in fase di acquisizione, ma anche per una indiretta certificazione dell’opera. Nessuna casa d’asta o serio intermediario rilascia “certificati di autenticità dell’opera”. 6 E ciò in quanto la facoltà d’autentica delle opere d’arte si caratterizza per essere un qualcosa proprio ed esclusivo dell’autore e non anche di altri, neppure degli eredi. I diritti morali, certamente, si trasmettono agli eredi: anche gli eredi di Ghirri possono rivendicare una foto se esposta sotto altro nome ma si tratta di una rivendica della paternità dell’opera che presuppone la mera identificazione (attribuzione, magari certa e fondata) dell’opera in capo a quell’autore, non certo di un’autentica. Quelle delle gallerie, degli eredi dell’artista, delle fondazioni, ecc. sono meri expertise che non hanno alcun valore giuridico al fine di autenticare l’opera in capo all’artista. E, ancora (sempre per trarre lo spunto dal caso originario), sarebbe possibile la rivendica della paternità quando vi è incertezza sulla riferibilità dell’opera a quell’autore? Più sopra si è tentata una qualifica di “autore” in fotografia: l’applicazione del concetto esposto, porterebbe alla negazione. Con contraddizione solo apparente, vi sarebbe una fotografia che è certamente proviene “da Luigi Ghirri” ma che non può esser attribuita come “di Luigi Ghirri”. Occorre, comunque, ricordare come il Codice dei beni culturali (artt. 178 e 64) faccia obbligo all’intermediario di consegnare all’acquirente attestazione di autenticità o di probabile attribuzione dell’opera. Ma ipotizziamo che una delle fotografie “di Ghirri” esposte alla Biennale vada sul mercato e qualcuno l’acquisti. Poi queste foto andranno in mano al collezionista (o anche saranno conservate 7 nell’archivio Ghirri, accanto a molte altre) e, per qualche motivo, non potrebbe esser annotato o ricordato che si tratta di una ristampa post-mortem. Che ne saprà un curatore o un archivista o un erede del collezionista tra 20 o 50 anni che è quelle sono ristampe post-mortem ? Ma un eventuale acquirente saprà ( o sa ) di comprare una ristampa del 2013 vent’anni dopo la morte dell’autore o crede di comprare un originale? Dipende da quale informazione gli viene data; se chi vende ha queste informazioni; se chi compra è un compratore attento o piuttosto uno superficiale; se sa interpretare le informazioni che gli vengono date; ecc. Tutto questo è semplice etica se siamo fuori da uno studio legale ma visto da dentro è diritto: i comportamenti delle parti (ed in particolare gli obblighi di buona fede nelle trattative precontrattuali e nell’esecuzione del contratto) sono importantissimi. E non solo: il procedimento nella formazione del consenso nel contratto (se l’acquirente avesse saputo che si trattava di una ristampa avrebbe o meno comprato l’opera), l’esistenza o meno di un errore essenziale e riconoscibile sull’oggetto del contratto (quando l’acquirente compie un errore su un elemento importante che influisce sul proprio consenso), la qualificazione dei vizi della cosa venduta o la mancanza di qualità del bene compravenduto, vengono in immediato rilievo. Tutte queste sono problematiche giuridiche sviscerate in sede di teoria generale del contratto ma quasi mai oggetto di studi dottrinali 8 o di sentenze nel campo particolare della compravendita di opere d’arte o di fotografie. Il secondo esempio trae luogo dalla visita al Mia Art Fair 2013 a Milano. In uno stand, vedo una foto di Nino Migliori, “Il tuffatore” (1951), lunga un paio di metri. Nel 1951, il formato corrente (anche per la mancanza di una tecnologia idonea), era il 30×40. Ed ancora: anche Piergiorgio Branzi propone alcune delle sue migliori immagini (la bambina con l’uovo bianco sul banco nero ed anche la fotografia del bambino con l’orologio sulle spalle, riflesso nella pozzanghera), anche queste in formato over-size. Qualche tempo dopo, vedo le medesime fotografie, in vendita sul sito di FORMA. Più esattamente, riportando l’esatta didascalia: PIERGIORGIO BRANZI, Ragazzo con l’orologio, 1955 Stampa giclée, Cm. 63 x 61, Firmata e timbrata; firmata, intitolata, datata, numerata e timbrata sul retro Da un’edizione di 10 Non viene dichiarata stampa contemporanea (anzi modern print), come palesemente appare (soprattutto per un indizio, ma solo all’esaminatore attento e al conoscitore della storia dei procedimenti fotografici). Questo lo ritengo un errore, etico ed economico, perché abbiamo due fotografie diverse tra loro per connotazione storica: una del 1955 ed una del 2013, su differenti supporti (forse quella del 2013 è addirittura tecnicamente migliore di quella del 1955, ma poco rileva). 9 Ma soprattutto la foto ristampata nel 2013 è sradicata dal suo momento storico, inteso anche come momento di vita dell’autore, come momento della sua visione del mondo e attestazione del suo momento fotografico, come uso della tecnologia dell’epoca. La superficie di una fotografia non è solo un insieme di alogenuri d’argento, di fibre di carta, di idrochinone: è anche un deposito temporale delle propria visione, delle proprie intenzioni, emozioni e speranze (e non solo di quel momento) ma anche di tanti elementi che si stratificano, nell’immagine, nel corso degli anni. Tutte caratteristiche che non si ritrovano più in una stampa eseguita 50 anni dopo lo scatto e che la connotano per un pesante plusvalore rispetto alla stampa contemporanea. Spesso il valore iconografico di quella fotografia non basta, da solo, a supportare la fotografia medesima. Già la valutazione (critica) dell’immagine cambia negli anni: poche sono le fotografie eterne (forse qualche centinaio su, oramai, miliardi) e sono comunque tutte legate a doppio filo al momento storico nel quale sono state realizzate. Qui, invece, gli autori sono viventi, controllano tutto il procedimento creativo e non vi è alcun problema a riconoscere loro la qualifica di autori; nemmeno si mette in discussione il loro potere di disporre dei propri negativi e delle fotografie. Ma, valutando tangenzialmente questo comportamento, fa bene al mercato della fotografia un’operazione di questo genere? 10 Ritengo che si generi una confusione enorme su originale dell’epoca e copia successiva, soprattutto nel momento di immissione sul mercato, con certo svilimento del valore economico dell’immagine. Ma come distinguerli? Anche qui, si ritorna agli obblighi di informazione, alle regole di buona fede (giuridicamente rilevanti) e alla preparazione – anche tecnica – di chi acquista, evidenziati più sopra. E il terzo esempio è illuminante per quanto appena detto: è la storia di una truffa. Werner Bokelberg è un collezionista (ed un fotografo) tedesco e, verso la fine degli anni ’80, originali di Man Ray (all’incirca della metà degli anni ’20) erano venduti alle aste a prezzi notevoli, intorno ai 300000 $ (2). Negli anni ’90 sul mercato erano comparse una serie di stampe di Man Ray (dichiarate realizzate negli anni ’20 e ’30) assolutamente splendide e in ottimo stato di conservazione. Sedotto da queste immagini, Bokelberg ne acquistò 78, per un prezzo stratosferico. Nel 1998, la collezione Bokelberg doveva esser esposta al MoMa a New York (e con essa i Man Ray acquistati) quando la curatrice della mostra – perplessa dalla perfezione delle stampe – convinse il collezionista a farle esaminare tecnicamente. La sorpresa non mancò: l’esame scientifico rivelò che le stampe era state realizzate parte su una carta Agfa fabbricata negli anni ’90 e parte su una carta fabbricata negli anni ’60. 11 Per cui le stampe non erano “originali” degli anni tra il 1920 e il 1930. Si sapeva che Man Ray aveva eseguito molte ristampe (tra il 1951 e il 1968 lo stampatore era Pierre Gassmann che usava carta Ilford e tra il 1968 e il 1976 vi era Serge Béguier che usava carta Agfa) ma nulla coincideva. Qualcosa il collezionista tedesco riuscì a recuperare ma a fronte della riconsegna delle foto che scomparvero nel nulla. E’ importante dire che una trentina di queste stampe – provenienti dalla medesima fonte – furono vendute come originali, all’asta, a Parigi nel novembre del 1983 e, attualmente, non si sa presso quali musei o collezioni si trovino. Probabilmente non lo sapremo mai, se non quando saranno rimesse sul mercato, quando si sarà persa la memoria del fatto. Avv. Massimo Stefanutti © Riproduzione riservata (1) Alla fine degli anni Settanta Luigi Ghirri (da quel momento poi considerato uno dei grandi maestri della fotografia contemporanea italiana e internazionale) sente l’esigenza di rifondare dell’immagine del paesaggio italiano. E nel 1984 il progetto “Viaggio in Italia” si realizza con una mostra alla Pinacoteca Provinciale di Bari, in un libro pubblicato dal Quadrante di Alessandria, con un testo di Arturo Carlo Quintavalle e uno scritto di Gianni Celati. Partecipano al progetto venti fotografi, per la 12

Vincenzo Cottinelli

E’ FINITA LA STREET PHOTOGRAPHY?

Stando così le cose, non potremo più sapere come eravamo (Grazia Neri, 2011) Fotografia di persone in luoghi pubblici o aperti al pubblico: ripresa, utilizzo, pubblicazione. Principi costituzionali, Legge n.633, Decreto Legislativo 30 giugno 2003, n. 196. Spunti per un dibattito. I) Premessa Data la scarsità di pronunce giurisdizionali in materia di fotografia, la sentenza della Corte di Cassazione, sez. V penale, 30 gennaio 2012 n. 3721 Pres. Ferrua – est. Marasca, fornisce lo spunto per riflessioni utili anche al di là della fattispecie esaminata. La Corte annulla un provvedimento di proscioglimento affermando che sussiste il reato di diffamazione a mezzo stampa a carico del direttore e dell’editore di un quotidiano, per un testo denigratore della mendicità corredato dall’immagine di una mendicante, fotografata per strada, che viene così associata ai contenuti dell’articolo ed è perciò diffamata. E’ impossibile esaminare razionalmente la questione della disciplina legale della fotografia di persone in luoghi pubblici, se non si opera una chiara separazione dei momenti nei quali si articola il procedimento fotografico. Di fatto, sia nel dibattito fra addetti ai lavori, che negli atteggiamenti sociali, regna una grande confusione: si tendono ad applicare alla ripresa concetti e regole che invece dovrebbero valere solo per l’utilizzo della fotografia. E’ sempre più frequente un atteggiamento di resistenza o anche di violenza da parte di chi, in luogo pubblico, vede nel fotografo un aggressore da fermare, cui proibire la ripresa, considerata come una illecita intrusione nella vita privata del cittadino. Sembra riemergere una concezione rozza, primitiva, superstiziosa della fotocamera come strumento che ruba l’anima. Eppure oggi tutti fotografano, nella più totale ignoranza della storia della Fotografia; tutti mostrano cumuli di immagini private in quel grande “bar all’aperto” che è Facebook, ma nessuno sembra accettare che qualcuno voglia seriamente fotografare la vita della comunità, come facevano la Street Photography, il fotoreportage sociale, nati in America e in Francia e diffusi in tutto il mondo sull’onda delle straordinarie storie visive raccontate da William Klein, Robert Frank, Eugene Smith, Henri Cartier-Bresson, Robert Doisneau, per citare solo i più pubblicati. Grazie ai loro scatti sappiamo come erano i nostri genitori, come eravamo noi da piccoli, come erano la vita e il costume nella realtà sociale. Nel futuro, forse si conoscerà solo come erano i nostri set, i nostri spettacoli, le inaugurazioni di boutiques, le sfilate di moda. L’eventuale obbligatorietà del consenso preventivo (scritto!) dei fotografati in luogo pubblico segnerebbe la paralisi totale della Street Photography. Il presente spunto cerca di dimostrare che vi sono argomenti per resistere, per non disperare, sempreché qualcuno voglia tirar fuori la fotocamera nascosta e riprendere a usarla in strada. In questo senso vuole anche essere un augurio a Grazia Neri perché i suoi timori diventino infondati. II) La ripresa a) La ripresa fotografica come diritto costituzionalmente garantito. La ripresa fotografica, cinematografica o televisiva in luoghi pubblici o aperti al pubblico, non importa se svolta a titolo professionale o amatoriale, è attività libera, appartiene ai diritti inviolabili di libertà dei cittadini (art.13 Cost.: divieto di qualsiasi restrizione della libertà; art.21 Cost: diritto di manifestare liberamente il pensiero e diffonderlo con ogni mezzo; art.33 Cost. “L’arte e la scienza sono libere” e anzi meritevoli di sostegno: art.9 Cost.“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura”). Fra i diritti fondamentali di questo rango costituzionale non si ritrova la c.d. privacy: l’art.14 Cost. tutela lo spazio privato con la inviolabilità del domicilio da ispezioni e perquisizioni; l’art.15 Cost. tutela la libertà e segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione. In nessuna norma costituzionale si rinviene la tutela del volto (o del corpo) dall’essere visto, guardato, osservato, ripreso, disegnato, fissato su supporto sensibile, quando, beninteso, si trovi in luogo pubblico; quando si trovi in luogo privato è protetto dall’inviolabilità del luogo. b) Il fotografato: privacy o publicity? La strada, la piazza, il bar, il campo sportivo, i parchi: è questo lo spazio dove i cittadini possono vivere senza timori e senza segreti (art.18 Cost.) a viso aperto, si dovrebbe dire, l’effettività dei loro diritti inviolabili (di associazione, circolazione, riunione, manifestazione e diffusione del pensiero, professione e propaganda religiosa, creazione artistica, ecc.). A viso aperto, a volto scoperto. Non è un caso che siano ancora in vigore il divieto di comparire mascherato in luogo pubblico (art. 85 T.U.LP.S.) e quello di usare caschi protettivi o qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona (art. 5 L. 22 maggio 1975, n. 152): illecito amministrativo il primo, reato il secondo. Lo stesso discorso vale per il velo delle donne di religione islamica, con qualche titubanza applicativa, da risolvere in logica di mera riconoscibilità, cioè di entità della coperturascopertura. Principio della trasparenza nel luogo pubblico come contrappasso a quello della riservatezza nel domicilio privato? sembrerebbe ovvio. Invece si dà fiato alla rivendicazione del diritto di “passeggiare con l’amante”, con proibizione al fotografo di riprendere i passanti perchè la relazione, casualmente, potrebbe essere svelata ai rispettivi coniugi. Atteggiamento ottuso, oltre che illegittimo, posto che il volto scoperto espone qualunque passante “birichino” al possibile riconoscimento da parte di testimoni (ben più pericolosi dell’ignaro fotografo): in strada non ci può essere privacy, perché c’è publicity (the state of being in the public eye). c) limiti alla ripresa. Ma possibile che i fotografi e i video operatori sono assolutamente liberi di fare quel che vogliono in fase di ripresa? In realtà l’ordinamento prevede: ovvi limiti generali di contenuti (buon costume) o di metodi (non turbare l’ordine pubblico); qualche divieto oggettivo (installazioni militari, edifici carcerari) per ragioni di sicurezza. L’unico divieto espresso (ma non assoluto) di ripresa senza il consenso preventivo, lo si trova nell’art.8, comma 2 del Codice di Deontologia per l’attività giornalistica, pubblicato dal Garante della Privacy il 28 luglio 1998: Salvo rilevanti motivi di interesse pubblico o comprovati fini di giustizia e di polizia, il giornalista non riprende ne produce immagini e foto di persone in stato di detenzione senza il consenso dell’interessato. Forse questa più avanzata restrizione deriva dal riconoscere che il detenuto è già in tale stato di menomazione, che il solo fatto di percepire la ripresa lo può umiliare; la questione è nata in occasione di alcuni arresti “eccellenti” ai tempi di “mani pulite”. Per quanto riguarda la grande massa dei detenuti sono noti non pochi pregevoli fotoreportages finalizzati a narrare le condizioni di vita nel carcere, nell’interesse pubblico all’informazione e nell’interesse degli stessi carcerati. Altro limite ovvio deriva dalla legge penale, che vieta violenze e molestie: va da sé che la ripresa realizzata con pressione fisica o con metodi assillanti (paparazzismo) è illecita e la opposizione del fotografato è legittima. Parimenti illecita, va da sé, ma non è questo il punto in discussione, la ripresa clandestina dentro il domicilio, realizzata con l’inganno (teleobiettivi attraverso finestre, fotocamere dissimulate, o simili). d) Conclusione. Dunque, in via generale, la ripresa “normale, pacifica” in luogo pubblico o aperto al pubblico non ha bisogno di consenso preventivo e perciò ogni violenza al fotografo, ogni pretesa di “distruggere il rullino o cancellare il file” è illecita. La ripresa fotografica, quale che sia la fotocamera usata (argentica o digitale) non dà luogo ad alcun prodotto definitivo, consolidato, pubblico, ma solo ad una “creazione virtuale privata” che non ha in questo momento alcun rilievo nella sfera del fotografato, potendo avere i destini più diversi che spesso nemmeno lo stesso autore è in grado di prevedere (fallita, cancellata, negletta, stivata in un cassetto o in un archivio? o, invece, pubblicata, esposta, venduta, premiata?). Con il processo digitale, poi, l’immagine potrebbe anche essere elaborata per legittimi fini creativi con cancellazione/alterazione del volto e perdita della riconoscibilità. Certo non è argomento semplice né facilmente persuasivo, ma dovrebbe essere chiarito al fotografato che una lesione ai suoi diritti è solo ipotetica e potenziale: né la pubblica autorità, né tantomeno lui, ha facoltà di censura preventiva (art. 21 Cost.) sull’immagine latente nella camera oscura del cittadino fotografante, così come sarebbe inammissibile sul taccuino del giornalista di penna, prima che rientri al giornale, prima che il giornale sia stampato. III) Dopo la ripresa; quando serve il consenso alla pubblicazione. a) La fotografia come prodotto, nelle leggi vigenti: la Legge n.633. La Legge n.633 del 1941 sul Diritto d’Autore, abbondantemente rimaneggiata, è tutt’ora in vigore, anche dopo l’approvazione del Decreto Legislativo 30 giugno 2003, n. 196, Codice in materia di protezione dei dati personali (c.d. Legge sulla privacy). La Legge 633 si occupa del diritto d’autore per ogni genere d’opera; nel Capo V, Diritti relativi alle fotografie, non detta regole per la ripresa, ma solo per la fotografia come prodotto successivo. Unica descrizione “a monte” è quella contenuta nell’art.87 che definisce che cosa è una fotografia: Sono considerate fotografie, ai fini dell’applicazione delle disposizioni di questo capo le immagini di persone o di aspetti, elementi o fatti della vita naturale e sociale, ottenute col processo fotografico o con processo analogo, comprese le riproduzioni di opere dell’arte figurativa e i fotogrammi delle pellicole cinematografiche. C’è in questa norma un riconoscimento dell’ampiezza dell’impegno culturale e sociale del fotografo, che sembra incredibile per l’epoca in cui fu scritto, e sembra più avanzato di certe concezioni odierne. b) Uso del ritratto fotografico nella L.633: regola del consenso, analisi delle eccezioni. Nel Capo VI, Sez.II, Diritti relativi al ritratto, La legge n.633 regola l’esposizione, la riproduzione, la vendita di un ritratto, ponendo in generale l’obbligo del consenso da parte del fotografato a tale utilizzo (non alla ripresa, che si suppone già avvenuta) ma concedendo subito dopo diverse deroghe motivate. La legge non dà la definizione di ritratto fotografico, perciò si deve intendere compresa nella disciplina qualsiasi immagine in cui la persona sia riconoscibile, anche se a figura intera o inclusa in una folla. L’art.96 recita: Il ritratto di una persona non può essere esposto, riprodotto o messo in commercio senza il consenso di questa, salve le disposizioni dell’articolo seguente. L’art. 97: Non occorre il consenso della persona ritrattata quando la riproduzione dell’immagine è giustificata dalla notorietà o dall’ufficio pubblico coperto, da necessità di giustizia o di polizia, da scopi scientifici, didattici o culturali, o quando la riproduzione è collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico. Il ritratto non può tuttavia essere esposto o messo in commercio, quando l’esposizione o messa in commercio rechi pregiudizio all’onore, alla reputazione od anche al decoro della persona ritrattata. Vediamo da vicino l’art.97. Il consenso non occorre:1.se il ritrattato è un personaggio famoso o un “uomo pubblico” (non importa dove fotografati); 2. se l’immagine serve a magistratura o polizia (foto segnaletica, ma non solo); 3.se la pubblicazione è fatta a scopi scientifici, didattici o culturali; 4.se la pubblicazione è collegata a fatti di interesse pubblico (dovunque verificatisi); 5. o se la pubblicazione è collegata a fatti anche non di interesse pubblico, ma svoltisi in pubblico. Si noti la differente definizione dei presupposti: i) per le deroghe di cui ai punti 1, 2 e 3 la pubblicazione deve essere giustificata (dalla qualità della persona o dallo scopo giudiziario, scientifico, culturale) perché si tratta di immagini che possono essere state riprese anche in ambienti privati o in occasioni private (uno scrittore, un pittore, nel proprio studio; festa privata a casa di un governante; cerimonia che dimostra conoscenza fra indagati: Andreotti e fratelli Salvo, foto di Letizia Battaglia). ii) per le deroghe di cui al punto 4 invece, la pubblicazione deve essere collegata a (deve parlare di) un fatto, avvenimento, cerimonia di interesse pubblico (un collezionista dona al Comune un’opera d’arte e invita alla cerimonia, in casa propria, le autorità cittadine, parenti, collezionisti, amici, appassionati; le fotografie dell’evento coinvolgono diversi soggetti: è legittima la pubblicazione anche se il luogo è privato e i ritrattati semplici sconosciuti). Nota: il denominatore comune delle ipotesi fin qui esaminate è evidentemente l’interesse della generalità dei cittadini all’informazione su personaggi pubblici o su fatti di interesse pubblico; ciò, si badi bene, già prima che nella nostra Costituzione si ribadissero quei valori in modo ancor più netto e completo come diritto-dovere di cronaca per i giornalisti, che prevale sull’interesse alla riservatezza del singolo privato. Oggi (art.21 Cost.) il giornalismo è libero perché non deve preventivamente chiedere consenso, cioè autorizzazione, a raccogliere, pubblicare o diffondere notizie di interesse pubblico. iii) quando poi – punto 5, ipotesi disgiunta dalla o – un evento, fatto, avvenimento, cerimonia si svolgono in pubblico, la legge esonera dal consenso, si noti bene, anche se manca l’interesse pubblico (fotografie di un matrimonio su sagrato di chiesa o su piazza di municipio: è legittima la pubblicazione non solo dei volti degli sposi, ma anche di passanti e curiosi che, per loro libera scelta, si sono “affacciati” alla cerimonia). Il fondamento dell’esonero in quest’ultima ipotesi, per il legislatore, è la pubblicità del luogo dove persone vengono ritratte; è questa una ragione forte di esproprio della facoltà di veto, a prescindere sia dalla qualità delle persone che dall’interesse pubblico del fatto documentato. Questa norma, anteriore alla Costituzione, prende oggi luce dal principio di “trasparenza” degli spazi pubblici indubbiamente sotteso alla nostra Carta fondamentale. Si veda quanto detto sopra in “Privacy-Publicity”. Vedremo più avanti che tale principio riaffiora nettamente anche nel Decreto Legislativo n. 196 del 2003. iv) ma che dire della fotografia di persone in luoghi pubblici quando (apparentemente) non accadono ne fatti, né avvenimenti, né cerimonie (casi emblematici: la nostra mendicante di cui alla sentenza, o gli homeless sui marciapiedi, o la folla a passeggio per lo shopping, o il passante solitario in una piazza deserta)? Se non si ritiene di ricondurre questi casi alla deroga di cui al punto 5, usando un’interpretazione estensiva del concetto di “fatto” (la presenza della mendicante intenta all’accattonaggio è un “fatto” che si svolge in pubblico), si potrà ricorrere a quella, più severa, del punto 3, cioè la “giustificazione culturale”. Premesso che comunque anche in questi casi non saranno leciti ostacoli preventivi alla ripresa fotografica, si tratterà dunque di valutare, in fase di esibizione o pubblicazione, se l’immagine documenta un fatto culturalmente rilevante (negli esempi: “povertà urbana dilagante, consumismo, desertificazione del centro cittadino”) che merita di essere comunicato (giustifica la comunicazione) al pubblico. v) non pone problemi l’ultima frase dell’art.97, l’ovvia “eccezione alla deroga”: anche se non occorre il consenso, o se il consenso è stato dato, non si pubblica un’immagine se la pubblicazione può offendere la dignità del fotografato. E’ il caso di cui alla sentenza 30 gennaio 2012. la foto della mendicante in luogo pubblico, legittimamente ripresa dal fotografo, legittimamente pubblicabile in un contesto culturale rispettoso, scorrettamente pubblicata, dice la Cassazione, perché introdotta in un articolo pesantemente razzista, denigratorio, insultante. La fotografia di una bella ragazza sensuale, pubblicata a corredo di un pezzo sulla prostituzione, subirebbe la stessa bocciatura. Ma anche nel caso di semplice pregiudizio non diffamatorio, l’art.10 del Codice Civile prevede un ricorso al giudice per far cessare l’abuso e per l’eventuale risarcimento dei danni (tifoso entusiasta in tribuna: legittimamente ripreso e pubblicato qualche volta, non può diventare il logo fisso di una rubrica calcistica quotidiana o settimanale, o, peggio, uno spot commerciale). In tutti questi casi, comunque, se la diffamazione o il danno al decoro derivano dal contesto editoriale, non vi è responsabilità del fotografo che ha realizzato e consegnato la fotografia all’editore/direttore, spettando a questi il potere-dovere di contestualizzare in modo corretto o di non pubblicarla; salvo naturalmente che il fotografo abbia scientemente fornito notizie false a corredo dell’immagine. IV) Considerazioni conclusive. La Legge 633 e il D.L.196/2003: una conferma e un passo avanti. a) Credo si possa dire anzitutto che l’art. 97 appena esaminato sia tuttora uno strumento più che robusto per garantire spazi legittimi alla Street Photography: siamo in una prospettiva di valutazione a posteriori della “continenza” cioè adeguatezza della pubblicazione della fotografia, con criteri a cui occorre restare ben ancorati, ma con una lettura non miope, non tanto per tutelare i diritti dei fotografi, ma per rispetto della Costituzione. La legge del 1941 non può più essere letta restrittivamente, per almeno tre motivi: primo, perché la cultura (l’arte) è libera in sé, nel suo prodursi, e non è più, come in epoca fascista, la “giustificazione” della comunicazione; secondo, perché, a prescindere dai contenuti, la comunicazione è il libero veicolo di libere manifestazioni del pensiero; terzo, perché nel frattempo la fotografia non è più solo un mestiere, ma è riconosciuta come uno dei linguaggi dell’arte, un fenomeno culturale, un mezzo di informazione. b) Poi c’è il nuovo Codice per il trattamento dei dati personali (Decreto Legislativo n.196 del 2003) che si occupa in generale del trattamento professionale, fatto con qualunque mezzo, dei dati personali ad opera di banche dati o altri soggetti, prescrivendo severi limiti, obblighi e autorizzazioni: primo fra tutti, il consenso della persona interessata. La cosa ci riguarderebbe perché la fotografia rientra nel concetto generale di dato personale e, a seconda dei casi, in quello di dato identificativo (ritratto riconoscibile) o dato sensibile (se l’immagine rivela razza, religione, opinioni politiche, ecc.) o dato giudiziario (se per es. rivela lo stato di imputato). Senonché i fotografi e i giornalisti, pur raccogliendo e trattando dati, non sono banche dati; gli uni e gli altri sono, all’occasione, giornalisti, scrittori, artisti, saggisti. Perciò il Titolo XII del Decreto 196, con l’emblematica intestazione Giornalismo ed espressione letteraria e artistica, prevede ampie libertà per chi opera con Finalità giornalistiche e altre manifestazioni del pensiero. Secondo l’art.137, comma 2 “non è necessario il consenso dell’interessato” (nè l’autorizzazione del Garante) se il trattamento dei dati (per es. archiviazione e pubblicazione di dati, testi o fotografie) è effettuato: i) sia come attività professionale di giornalisti (art.136, lett.a) e pubblicisti (lett.b); ii) sia come attività amatoriale o free-lance, cioè “per la pubblicazione o diffusione occasionale di articoli, saggi e altre manifestazioni del pensiero anche nell’espressione artistica” (art.136, lett.c) E’ evidentissima, per questi due casi, l’analogia con gli esoneri dal consenso previsti dal “vecchio” art.97 L.633 del 1941 (non solo per la “giustificazione culturale” ma in tutte le sfumature dell’interesse pubblico all’informazione). Ce lo spiega, come meglio non si potrebbe, l’art.1 del Codice Deontologico dei giornalisti (Allegato A al Decreto 196): si tratta di “contemperare i diritti fondamentali della persona con il diritto dei cittadini all’informazione e con la libertà di stampa” e ancora: ”In forza dell’art. 21 della Costituzione, la professione giornalistica si svolge senza autorizzazioni o censure. In quanto condizione essenziale per l’esercizio del diritto dovere di cronaca, la raccolta, la registrazione, la conservazione e la diffusione di notizie su eventi … relativi a persone…. attuate nell’ambito dell’attivita’ giornalistica … si differenziano nettamente per la loro natura dalla memorizzazione e dal trattamento di dati personali ad opera di banche dati o altri soggetti. Su questi principi trovano fondamento le necessarie deroghe.” Ciò calza a pennello anche per i fotografi di ogni genere: la raccolta (ripresa) prima, la pubblicazione (diffusione) poi, di fotografie, danno luogo ad attività giornalistica sia quando le immagini sono un messaggio significativo a sé stante, sia quando supportano un discorso espresso in un articolo. Naturalmente, precisa subito l’art.137, comma 3, prima frase, “restano fermi i limiti del diritto di cronaca a tutela dei diritti di cui all’articolo 2 e, in particolare, quello dell’essenzialità dell’informazione riguardo a fatti di interesse pubblico”. Opportuno richiamo alla prudenza dei giornalisti, dopo il riconoscimento di ampie libertà, con invito ad aver sempre di mira informazioni essenziali che interessino il pubblico (continenza): per esempio, no gossip, no morbosità, o il minimo indispensabile. Rimane dubbia l’applicabilità in concreto di questa ammonizione ai prodotti saggistici, letterari, artistici, che pure godono a pieno titolo degli esoneri e fra i quali si colloca senza esitazioni la fotografia, la quale o sta nel “gruppo giornalismo”, oppure nel “gruppo arte-cultura” (talvolta in tutti e due, mi pare) ma è da accogliere volentieri come forte indirizzo. Con ciò sembrerebbe ultimato il discorso sulle deroghe, e invece c’è una bella sorpresa. iii) La seconda frase del comma 3 dell’art.137 afferma: “Possono essere trattati i dati personali relativi a circostanze o fatti resi noti direttamente dagli interessati o attraverso loro comportamenti in pubblico.” Affermazione netta, inserita in una sequenza logica di questo tipo: il trattamento dei dati per finalità giornalistiche e la diffusione occasionale di articoli, saggi e altre manifestazioni del pensiero e dell’espressione artistica godono degli esoneri di cui all’art.137; tuttavia devono rispettare i limiti generali di continenza; viceversa non ci sono limiti al trattamento di dati per così dire “di provenienza diretta ed autentica dal soggetto”. Interessante, molto interessante. In pratica è un esonero del terzo tipo, una liberatoria “autoprodotta”. Dunque, per fare un esempio: il fotografo può fotografare (il giornalista riferire le parole, raccontare, descrivere) un cittadino portacroce in processione pasquale o un altro prosternato davanti alla moschea; il giornale può pubblicare la relativa immagine, ma può anche scrivere, in didascalia o nell’articolo a commento: “ecco un devoto cristiano, ecco un praticante musulmano” (dati sensibili desunti dal comportamento). Non si potrà scrivere, a commento di tali foto “ecco un fondamentalista” o “ecco un fanatico”; ma si potrà dire che lo sono quando gli stessi abbiano dichiarato di condividere l’uccisione di medici abortisti o gli attentati suicidi. Il comportamento in pubblico, a volte anche solo la presenza in certi luoghi pubblici, in certe manifestazioni o cerimonie, ha dunque per l’ordinamento questo tremendo valore significante, parificato al “render noto direttamente”, una specie di outing generalizzato per fatti concludenti (come i cortei del Gay Pride insegnano). In corrispondenza, c’è il tremendo potere della Fotografia (del Giornalismo), di cogliere quella realtà, mostrarla, raccontarla. Se questo è il senso dell’ultima frase dell’art.137, si tratta di un ritorno armonico dell’ultimo tipo di esonero dall’obbligo di consenso previsto nell’art. 97 della Legge n.633 per fatti, avvenimenti, cerimonie [di interesse pubblico o] svoltisi in pubblico. Anzi, si intravede un allargamento o chiarificazione dell’esonero, che non copre più solo le fotografie di persone dentro fatti, avvenimenti, cerimonie, ma anche fotografie di semplici comportamenti in pubblico di singole persone. In altre parole è una straordinaria conferma e uno sviluppo della linea affacciatasi già nel 1941 e continuata nell’idea della trasparenza in luogo pubblico insita nella Costituzione. Mostrare gli uomini “as they are” per raccontare la società, significa concorrere al suo progresso: mostrare esseri felici fa bene alla speranza; mostrare uomini e donne diversi fa bene alla tolleranza; mostrare le sofferenze stimola a rimuoverle (art.3, secondo comma, Cost.). Ciò anche a costo di disturbare qualche privata comodità, qualche disinvoltura, qualche egoismo. Naturalmente e in tutti i casi nel rispetto della dignità umana e senza eccessi non necessari, ma anche nel massimo rispetto della libertà intellettuale e di opinione. La Street Photography non è finita, può continuare, credo. La Legge lo consente, la Giurisprudenza, speriamo, anche. 3 marzo 2012 www.vincenzocottinelli.it Riproduzione riservata ©

Ho appena finito di leggere il bel libro di Fred Richtin “Dopo la fotografia” (Einaudi, 2012). Ad un certo punto, mi sono imbattuto in alcune riflessioni, sul “diritto della fotografia dopo la fotografia”. Per Richtin c’è un prima e un dopo, nella fotografia: “” Il diritto d’autore è legato all’evoluzione delle tecnologie di riproduzione e trasmissione dell’informazione da un filo più stretto di quanto non avvenga in altri settori del diritto. La digitalizzazione spezza il legame tra la dimensione immateriale e quella materiale dell’opera: se per un verso essa può essere facilmente trasferita su qualunque supporto, per altro verso non necessita più della stabile presenza di questo, potendo circolare all’interno di una rete telematica anche in sua assenza. Il processo di digitalizzazione, riducendo tutte le opere a sequenze di 0 e 1, rende possibile le forme più evolute di multimedialità. (…) Sotto il profilo della fruizione dell’opera, la perdita di centralità del supporto costituisce un elemento essenziale del processo di transizione, ormai giunto in fase matura, dall’era della proprietà all’era dell’accesso.”” (1 ). Difficile dargli torto: stiamo continuando a vivere una transizione tecnologia, degli usi ai quali prima mai avremmo pensato, abbiamo una fotografia che “partecipa” agli altri media, che vive sulle interazioni. Ora la comunicazione sembra più importante dell’unicità fotografica. Sostituiamo all’unico originale una continua, diffusa, incontrollata riproducibilità (sia dell’immagine che del contenuto della medesima, con un’assoluta perdita di aura). Anzi, l’unicità viene vista come un ostacolo alla conoscenza. La tecnologia, basata su codice binario, rende la fotografia al pari dell’araba fenice, brucia e poi risorge. Ma questa morte e risurrezione, in un mondo virtuale, si deve confrontare con un’altra dimensione, quella del diritto, che vive ancora in un altro tempo: quello del momento in cui una norma viene scritta e poi adottata. Il diritto (la regola) lo dico subito, arriva sempre (o quasi sempre) in ritardo. Solo le piazze spingono su un nuovo diritto, in tempi più rapidi. Rispetto alla situazione italiana, è utile un confronto tra la norma in vigore (L. 633/1941 e successive modificazioni) e la situazione attuale, facendosi sempre e solo una domanda specifica: queste norme, nate in epoca fascista (ma espressione di prospettive più generali che si basavano sulla Convenzione di Berna) che concetto esprimono ed è possibile applicarli alla variegata e sempre mutevole tecnologia fotografica digitale? L’art.1 L. 633/1941 afferma un concetto di “opera” : idea ⇒ espressione dell’idea (forma dell’opera) ⇒ supporto materiale (è qualcosa di paragonabile alla trinità…). Ma nell’elenco non c’era la fotografia, nel 1941: è stata aggiunta solo nel 1979, all’art. 2, n. 7. Ora, facciamo una foto con lo smartphone che tutti abbiamo in tasca (o con qualunque camera digitale). Non c’è un supporto materiale, ci sono solo elettroni, qualcosa che scompare (o così sembra) quando spegniamo il telefonino o la camera: nulla ci resta, salvo poi ritrovarlo alla riaccensione. Quando “diventa” opera, completando la trinità citata? “”L’avvento della tecnologia digitale ha introdotto una grande rivoluzione all’interno del rapporto autore-fruitore perché facilita l’accesso all’opera superando ogni controllo e ignorando i diritti dell’autore. Fino a pochi anni fa, non era concepibile un’opera dell’ingegno (ad esempio un romanzo) scollegata dal suo supporto fisico (cioè il libro cartaceo); con l’avvento della tecnologia digitale invece l’opera tende a de-materializzarsi e ad essere totalmente indipendente dal supporto fisico. Ciò ovviamente ha sconquassato equilibri economici e giuridici che si erano stabilizzati ormai da secoli. Le reazioni sono state diverse: •il mondo della scienza giuridica (della sociologia e della filosofia del diritto) ha studiato con grande fascino questa rivoluzione; •il mondo del diritto applicato (le leggi e la prassi contrattuale) ha invece cercato in tutti i modi di contrastare questa tendenza e di riaffermare con fermezza il modello tradizionale, radicato sull’inscindibilità fra opera e supporto materiale (SIAE). Il contenuto digitale manca insomma della fissazione su supporto e non ha nemmeno una fissazione della forma desiderata dall’autore. potrebbe non avere neanche le caratteristiche di opera dell’ingegno (2).”” E’ necessario affermare (a meno di non eliminare dal nostro orizzonte gran parte della produzione artistica contemporanea) l’esistenza di opere senza supporto materiale, con buona pace dell’art. 1 L.A. e della citata “trinità”. Ed ammettere anche una tutela giuridica di queste opere: la cessione di un file [ non confondendo gli elettroni organizzati in un singolo elemento – in formato .jpg o .tif o altro – sullo schermo del nostro computer con “”l’immagine digitale che è la rappresentazione numerica di una immagine bidimensionale. La rappresentazione può essere di tipo vettoriale oppure raster (altrimenti detta bitmap); nel primo caso sono descritti degli elementi primitivi, quali linee o poligoni, che vanno a comporre l’immagine; nel secondo l’immagine è composta da una matrice di punti, detti pixel, la cui colorazione è definita (codificata) tramite uno o più valori numerici (bit) (3)””. è, per elaborazione giurisprudenziale, parificata alla cessione del negativo, grazie ad una faticosa interpretazione evolutiva dell’art. 109 secondo comma L.A. Ma qui, evidentemente, si fa riferimento ad un concetto semplificato e fisico di file, non certo all’accozzaglia disordinata di bit all’interno della memoria fisica. Ulteriore complicazione è il concetto di “opera dell’ingegno a carattere creativo”, in quanto vi è tutela giuridica solo con tale presupposto. Come faccio a decidere se l’opera ha carattere creativo se non ho l’opera e ho difficoltà ad individuare qualcosa che posso qualificare come opera? E’ “opera” solo perchè la vedo nello schermo? Ci sono camere digitali che non hanno lo schermo. Se, per paradosso (ma neppure tanto) mi rubano la camera digitale con immagini non ancora scaricate e il ladro scarica e spaccia come proprie le “mie” fotografie, che faccio? Come rivendico un diritto di proprietà sulle immagini (prima) e i miei diritti di autore (poi)? E che cosa rivendico? Qualcosa che NON era nemmeno opera in quanto erano solo elettroni sparsi in una memoria? Sempre Richtin: “”L’estrema plasticità offerta dalla rappresentazione digitale di un’opera consente a chiunque di partecipare al processo della sua scomposizione e ricomposizione, della sua modifica e della sua rielaborazione. L’opera finisce così per perdere quel carattere di stabilità spaziale e temporale che la caratterizza nel contesto analogico per divenire instabile, fluida, transitoria.”” Chi è autore? Per l’art. 6 L. 633/1941 lo è chi crea, con evidente tautologia. Perciò non lo si definisce compiutamente e si preferisce dire che chi crea acquista i diritti a titolo originario. Il successivo art. 8 afferma è autore chi si dichiara tale nelle forme d’uso, facendo evidente riferimento alla soggettività in una auto-dichiarazione. Ma l’attuale tecnologia digitale (e le sue occasioni d’uso) sono molto più complesse ed intriganti. Molti adoperano la nuova Nikon 1, camera digitale che ha una particolare caratteristica: premendo il pulsante di scatto (nella funzione Motion snapshot) si aziona – qualche microsecondo prima del click definitivo – e scatta una serie di fotografi prima, al momento e dopo l’attimo scelto dall’operatore. E poi, indipendentemente dalla volontà del fotografo e sulla base di un criterio preimpostato, sceglie l’immagine finale. Chi è, qui, l’autore, il fotografo che ha genericamente scelto un frammento della realtà o il software che individua un frammento, quale migliore di altri, al di là della percezione, dell’attività volontaria e della conoscenza del fotografo? Molti non lo sanno, ma molte camere digitali attuali utilizzano la c.d. funzione HDR: in poche parole “”al momento dello scatto, la fotocamera preleva più di un’immagine (tre, cinque in istantanea sequenza), variando l’esposizione tra l’una e l’altra, che è possibile ricombinare successivamente in una sola, in modo da sfruttare l’esposizione ottimale per ogni area dell’immagine”” (4). Altri casi? Al SI FEST, a Savignano sul Rubicone, ogni anno viene assegnato un premio di fotogiornalismo: nel 2012 lo ha vinto il giovane Giorgio Di Noto, che ha presentato un lavoro dal titolo: The Arab Revolt. Prendendo spunto dalla documentazione delle rivolte, all’interno della c.d. primavere arabe (nelle quali i partecipanti testimoniavano la loro presenza e il loro agire per mezzo degli smartphone o di videocamere, diffondendo le immagini – in tempo quasi reale – in rete attraverso web-tv o i social network) Di Noto ha esaminato i materiali in rete e ne ha tratto singole immagini che poi riproduceva tramite una pellicola a sviluppo istantaneo, rileggendo e, in fondo, ricostruendo un’altra versione di quella realtà. In fondo, Giorgio Di Noto ha sovrapposto la propria autorialità a quella degli autori originali, accantonando intenzioni, visioni, testimonianze dei secondi in favore di una rielaborazione personale non solo dell’evento ma anche del mezzo medesimo con cui l’evento è stato testimoniato (5) Ed ancora, facciamo riferimento ai vari sistemi automatici di ripresa, siano essi video o fotografici. Nessuno, su Marte, preme il pulsante di scatto delle macchine fotografiche sulla sonda Curiosity: eppure ci giungono eccellenti immagini dei panorami marziani. Google Street Wiew opera anch’essa con un’apparecchiatura che prescinde dalla volontà di un operatore, che semplicemente imposta il percorso del mezzo e accende il sistema di ripresa. E il risultato è che possiamo essere in ogni parte del mondo, seduti al tavolo della nostra cucina. Anche Google Earth ci propone splendidi particolari del nostro pianeta; per non parlare, poi, dei vari satelliti artificiali che rilevano ogni metro di superficie, cancellando dall’uso comune il verbo “nascondere”. In questi casi, nessuno che sceglie cosa, quando e dove fotografare: però tutti affermano un diritto di autore (rectius: un copyright ) sulle immagini così prodotte. Così le norme di policy di Google: “”Tutti i diritti di proprietà delle immagini rimangono in capo a Google e/o agli eventuali concessori di licenza e l’uso di Google Maps non comporta l’acquisizione di nessuno di questi diritti. Le immagini sono soggette a copyright e non possono essere copiate, neanche se modificate o integrate con altri dati o software.”” Chi sa interpretare tale norma si rende conto del corto circuito concettuale tra diritto di proprietà sull’immagine (in quanto proprietario di mezzi e del sistema necessario a produrle) e il vero diritto (morale e patrimoniale) in capo ad un autore, che qui non c’è. E la necessità di tutelare un prodotto non giustifica (qui in Italia, come nel resto del mondo) l’utilizzo di concetti estranei al caso specifico. Ma allora, che fare? Prevedere un diritto per l’attuale stato della fotografia digitale e più ampiamente per il “c.d. bene digitale” (per il momento, non sappiamo cosa ci offrirà il futuro) e ciò in ogni campo del diritto. Già si parla del computer quantico: forse avremo una versione fotografica del gatto di Schordinger? E’ quel gatto che, se osservato (in ambiente quantico) cambia stato: da vivo a morto o da morto a vivo. Per la foto potrebbe essere la stessa cosa: guardiamo una foto e, a seconda di chi la guarda e come, è una foto di Basilico o di Cartier-Bresson o di Martin Parr (così sistemiamo una volta per tutte la questione dell’autore). Le proposte possono esser le più varie, ma debbono far tutte riferimento ad accordi internazionali. Senza scomodare una revisione della Convenzione di Berna sulla proprietà intellettuale, Neelie Kroes, Vice Presidente della Commissione europea e responsabile per l’attuazione dell’agenda digitale, ha già annunciato gli studi preliminari per una nuova Direttiva europea per il diritto di autore. Ma cosa dovrà esserci, in questa nuova Direttiva, sulla tecnologia digitale (non solo per la fotografia) ma anche tutte le applicazioni in rete? Prima di tutto, trovare una nuova definizione di “opera” per qualunque espressione della creatività umana realizzata con la tecnologia digitale. E’ opera “da quando”? Vi è anche l’idea di sostituire il concetto di “opera” con quello di “bene (o opera) digitale”. Ma il passo – oramai non più rivoluzionario – sarebbe quello di pensare ad un nuovo diritto (ibrido con caratteri del patrimoniale e del morale) : “diritto di condivisione in rete delle immagini”. Quando si immette una fotografia ( con opportuno allargamento alle altre opere dell’arte figurativa ), deve sapere che gli altri la possono condividere ( e cioè utilizzare all’interno della rete ) e questo , come si dice, di “default” ma con la possibilità di inibire tale meccanismo con l’esplicita volontà dell’autore o del titolare dei diritti sull’opera. Magari per fini storici, didattici, culturali, sociali, per l’accrescimento della cultura e della conoscenza, a titolo personale e senza fine di lucro. Dentro ( o dietro ) a questo nuovo diritto ce ne sono, poi, altri: riproduzione, elaborazione ed utilizzo, ecc. all’interno, comunque, di limiti molto precisi. Con le dovute eccezioni: se qualcuno usa la foto per farci soldi, paga il giusto compenso. Tutto avanza perchè siamo in un sistema complesso che si avvale di continue interazioni, di azioni progressive. Chi lavora insieme ( nel senso che ha più prospettive o scelte davanti ) ha più risultati di chi lavora da solo o ha una sola scelta. La rete è una grande possibilità di circolazione delle idee (purtroppo anche di quelle sbagliate): è, oramai, un diritto culturale fondamentale al pari della libertà di pensiero. Nel nostro paese, però, qualche norma esiste, anche se tanto vituperata in quanto parzialmente errata, e non ben compresa. Mi riferisco all’art. 70 comma 1 bis e all’art 71-nonies della L. 633/1941. Il primo articolo afferma che : ””È consentita la libera pubblicazione attraverso la rete internet a titolo gratuito, di immagini e musiche a bassa risoluzione o degradate, per uso didattico o scientifico e solo nel caso in cui tale utilizzo non sia a scopo di lucro. Con decreto del Ministro per i beni e le attività culturali, sentiti il Ministro della pubblica istruzione e il Ministro dell’università e della ricerca, previo parere delle Commissioni parlamentari competenti, sono definiti i limiti all’uso didattico o scientifico di cui al presente comma .”” Premesso che il regolamento non è stato ancora emanato e, di diritto, la norma appare così inapplicabile (6), di fatto è poco comprensibile cosa siano le immagini e musiche a bassa risoluzione o degradate. Per la fotografia, bassa risoluzione vorrebbe dire pochi kilobyte o pochi dpi, quando tutte le immagini in rete, proprio per velocità di visualizzazione e trasferimento, sono di tale tipo: per cui la “libera pubblicazione” (qui probabilmente il poco accorto legislatore si riferiva sia alla possibilità di utilizzate immagini a bassa risoluzione già in rete e di pubblicarle – senza il consenso dell’autore – nella rete medesima ma non al di fuori di essa oltre che all’inserimento in rete di immagini (fotografie?) di opere protette dal diritto di autore,) è ancor qui eccezione ai principi generali della legge sul diritto di autore e, pertanto, norma che apparirebbe esser imperativa e non derogabile dalla volontà dell’autore medesimo. E, ancora, si evidenzia come l’uso di tali immagini – sempre si spera con l’obbligatoria citazione del nome dell’autore anche se si tratta di fotografie semplici – sia limitato alla didattica ed alla scienza (rigorosamente non a fini di lucro per cui tali immagini non potrebbero mai esser edite su un sito con accesso a pagamento) con esclusione di tutte quelle forme di informazione e divulgazione (per esempio le enciclopedie on line) presenti sul web. Avv. Massimo Stefanutti Diritto della fotografia e della proprietà intellettuale Riproduzione riservata © Crediti: (1) Fred Richtin “Dopo la fotografia” Torino, 2012 (2) Prosperetti, ‘‘La tutela dell’opera audiovisiva digitale: criticità, giurisprudenza e possibile intervento normativo’’ (articolo reperibile sul web su www. (3) così in Wikipedia, voce file. (4) http://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/2013/03/20/nel-mondo-perfetto-dellhdr/ (5) http://sifest.net/2012/09/16/pesaresi2012/ (6) Occorre doverosamente segnalare come l’articolo di legge qui commentato sia in palese violazione della Direttiva Europea per mancanza dei requisiti lì richiesti per assumere il rango di “eccezione e limitazione”; per cui, in un giudizio in Italia, potrebbe essere disapplicato

Il Giudice e il suo Facebook La storia di Doina Matei ha avuto, nei mesi scorsi, un altro momento difficile. Come molti ricordano, nell’aprile del 2001, questa signora rumena – all’epoca di anni 21 con due figli e un vissuto di abbandoni e prostituzione – uccise la 23enne Vanessa Russo, a Roma, al termine di una lite nella metropolitana, infilandole la punta di un ombrello in un occhio; fu condannata a 16 anni per omicidio preterintenzionale aggravato. Reclusa nel carcere di Venezia, aveva ottenuto la possibilità di lavorare all’esterno, come cameriera, rientrando la sera nella casa di reclusione, e ciò dopo aver scontato ben 9 anni di reclusione. Alla fine del mese di aprile, un giornalista aveva rintracciato un profilo Facebook della Matei, nel quale erano postate delle foto eseguite all’esterno ( a Venezia ) e nelle quali la predetta si era fatta ritrarre con lo sfondo di Venezia ( e del Lido, in estate, in costume ), mentre sorrideva. Il fatto aveva scatenato moltissime proteste, in particolare dei famigliari della giovane uccisa, ed una campagna di stampa, a dir poco giustizialista. Il Giudice di Sorveglianza di Venezia aveva sospeso la semilibertà alla Matei, soprattutto in quanto vi era un divieto di comunicazione a terzi, se non a specifiche persone. Successivamente il Tribunale di Sorveglianza aveva ripristinato la semilibertà, in quanto – seppur considerando la pubblicazione su Facebook come inopportuna – non vi erano veri motivi per interrompere un percorso di riabilitazione sociale che fino a quel momento aveva avuto riscontri positivi. Ma nel provvedimento del Tribunale di Venezia vi è un passaggio (proprio riferito a Facebook e, in particolare, al contenuto delle fotografie lì postate) che lascia perplessi. Ed esattamente “….le trasgressioni poste in essere dalla Matei e ad attribuire loro la natura di deviazioni, sicuramente inopportune per le conseguenze di un rinnovato, acuto dolore, che hanno rinnovato nelle persone offese dal reato (le cui sofferenze non potranno essere lenite da qualunque decisione di questo Tribunale, che certamente comprende tutto lo sgomento, e finanche l’incredulità dei congiunti della giovane vittima a fronte della diffusione via Internet delle foto della condannata, ancora in esecuzione penale, che sorride felice, quasi incurante dell’eterno dolore cagionato)… “ Credo che questi Giudici qualche domanda (estranea al diritto), se la sarebbero dovuta fare, prima di scrivere, ma sembra proprio che non sia stato così. E cosi tutti coloro che hanno visto in quelle fotografie, un’offesa incancellabile alla vittima e ai suoi familiari. Perché, il problema di fondo, è tutto qui: si è trattato di un nuovo caso di giustizialismo fondato non tanto sulla fotografia di una persona sorridente (come afferma Michele Smargiassi, su Fotocrazia), quanto su un equivoco su un media anch’esso equivoco e che utilizza la fotografia con una modalità particolare. Siamo sicuri che postare una foto su Facebook sia davvero la comunicazione univoca ed unidirezionale, come rilevato da tanti ed anche dal provvedimento? O, piuttosto, che Facebook sia utilizzato come una grande vetrina, con contenuti estremamente ambigui, e, alla fine, con fini esclusivamente narcisistici, dove le foto non sono indirizzate agli altri, nel loro senso iconico, ma piuttosto a sé stessi, come una sorta di conferma del proprio essere e del proprio esistere? Alcune settimane fa, Linda Ferrari ( una giovane studiosa milanese ), in una serata al Circolo Fotografico La Gondola ( potete vedere il video all’indirizzo https://www.facebook.com/CIRCOLO-FOTOGRAFICO-LA-GONDOLA-VENEZIA- 366313159284/ ) ci rivelava alcuni meccanismi inconosciuti del funzionamento di Facebook, ponendo anche l’accento sulla natura di semplice sostitutivo della “parola” nelle fotografie postate su Facebook. La fotografia di sé stessi nel gesto di mangiare un pezzo di pizza ha più livelli di verbalizzazione ma, nell’intenzione del postatore, è e resta una semplice comunicazione verbale della propria esperienza momentanea,. Ma, in sintesi, sembra prevalere la conclusione di un Facebook come antidoto alla propria solitudine, più che un media per relazionarsi con gli altri, per comunicare qualche cosa di particolare a chi guarda (o, piuttosto, a chi è indirizzata la foto postata). Una sorta di urlo, nel quale si sentono sullo sfondo delle parole indistinte, nulla di più o di diverso. Se “posto”, lo faccio soprattutto per me: quanti sono gli autoritratti (pardon, i selfies!!) su Facebook? Penso che questo sia il senso con cui la sig.ra Matei abbia postato dapprima una vecchia foto su Facebook e poi altre nella medesima situazione (un mite sorriso): un suo ritorno alla vita, ad una normalità negata per tanti anni, ad una nuova affermazione di sé, dopo 9 anni di galera. Ma, mutiamo prospettiva: la foto della spiaggia (che risale a molti mesi fa, davanti al mare: nessuno ha notato che adesso siamo in primavera e non vi è contemporaneità tra lo scatto e la pubblicazione) fosse stata scattata da un reporter e diffusa su un giornale, si sarebbe scatenato l’inferno mediatico nei confronti della sig.ra Matei? Non voglio dare risposte certe: i soliti giustizialisti si sarebbero infuriati ma, alla fine la responsabilità sarebbe stata attribuita a povero reporter che ha forzato un’immagine per uno scoop. E se la sig.ra Matei avesse postato una sua foto in lacrime davanti alla tomba della vittima, si sarebbe invocata – come fatto da qualcuno – la pena di morte (ecco l’assassina che prega ma non è certo pentita….)?. Ci vuole veramente poco a strumentalizzare Facebook – tramite la fotografia postata – da parte di alcuni, nel senso che l’istantaneità della condivisione porta con sé la messa in scena di un’immediatezza sconsiderata in una risposta anch’essa poco considerata, soprattutto se non ci si ferma a riflettere sul significato di quello che si vede, sul mezzo e su quello che si vuol dire o far dire. E, allora, quale significato finale? Solo un’equazione lombrosiana: sorriso=colpevole? Anche in un provvedimento giudiziario? Avv. Massimo Stefanutti Diritto della fotografia e della proprietà intellettuale © Riproduzione riservata

Quando incrociamo le molte decisioni (in qualunque campo, dall’agroalimentare all’economia) della Comunità Europea, spesso ci chiediamo dove vivano i parlamentari e i ministri europei. Forse Marte sarebbe un luogo più idoneo a sopportare proposte e leggi spesso cervellotiche e senza alcun collegamento con la realtà. Molti di voi si ricorderanno la proposta di una nuova normativa sulla libertà di panorama: in poche parole, alcuni parlamentari europei avevano proposto di limitare, in modo pesantissimo, la possibilità di fotografare beni immobili (anche un semplice paesaggio). Secondo la proposta (portata avanti da alcune lobby) non sarebbe stato più possibile fotografare (rectius, riprodurre nel senso di utilizzare una fotografia, per fini anche non commerciali) beni immobili siti in qualunque paese europeo, legando la possibilità di utilizzo ad un consenso (prezzolato) del proprietario del bene. Per cui basta foto alla Basilica di San Marco a Venezia (sia dall’esterno che all’interno) senza il consenso ed il pagamento di care royalties al Patriarcato. E questo (nella confusa proposta di legge da parte della lobby incaricata) senza distinguere tra selfie con la compagna (o il compagno) e foto professionale per la pubblicazione in una guida turistica. Anche se, poi, situazioni di questo genere già si ritrovano in giro per l’Europa: tutti sanno che la Tour Eiffel è liberamente fotografabile e riproducibile di giorno (anche per fini commerciali) mentre non lo è di notte, in quanto la decorazione luminosa della torre è sottoposta al diritto d’autore in capo alla società che ha provveduto all’illuminazione! Ancora (ma appartiene alla logica del diritto) vi sono moltissimi edifici (la nuova “nuvola” di Fuksas a Roma, quale disciplina giuridica avrà, per poter esser riprodotta?) sono sottoposti alla disciplina del diritto di autore in quanto opere architettoniche, per la cui riproduzione è necessario un consenso, nei limiti della disciplina attuale. Per fortuna, ci fu la rete (ed anche la stampa cartacea). La proposta scatenò un putiferio di proteste, anche pesanti e la proposta sulla nuova configurazione del diritto di panorama fu respinta. Ora, però, un nuovo spettro si aggira per l’Europa: il divieto di link. Spesso le piattaforme web e gli utenti incorporano link che rimandano ad immagini e contenuti tratti da altri siti, soprattutto da giornali europei o, comunque, utilizzano il link per il proprio fine principale, quello di indicare qualcosa. Per la nuova proposta, la possibilità di linkare potrà esser soggetta ad una licenza ventennale (addirittura retroattiva…) senza nessuna eccezione per gli utenti e ciò per proteggere gli editori, che potrebbero così ricevere un compenso per le notizie diffuse, tanto quanto con una fotocopiatrice quanto con un link. Non si capisce bene il limite: se, cioè, questo varrà solo per i link che riconducono a siti giornalistici o se sarà applicata a chiunque voglia indirizzare qualcuno su qualcosa (ad esempio dal sito del nostro circolo a quello dei singoli soci). Dovremo pagare per vedere le fotografie degli altri, a meno che non ci venga graziosamente concesso di farlo gratis? Se così fosse, la rete sarebbe morta e la condivisione sepolta dall’ignavia di pochi umani. E speriamo che la Comunità Europea faccia anche giustizia, nell’ambito del Digital Single Market, di tutte le aberranti pratiche di geoblocking che infestano la nuvola digitale. Avv. Massimo Stefanutti Diritto della fotografia e della proprietà intellettuale Riproduzione riservata ©

A Bibbiena, il 16 settembre 2017, è andata in onda un’altra puntata del “Grand Tour” del Mibact, nell’ambito degli Stati Generali della fotografia italiana coordinati da Lorenza Bravetta. Questa volta il tema era “Ridefinire la fotografia amatoriale” e, per nulla si era a Bibbiena, nella tana della Fiaf ( o meglio del suo C.I.F.A. – Centro Italiano per la Fotografia d’Autore ). Il parterre era notevole ( Michele Smargiassi a coordinare, Mario Peliti, Lucia Miodini, Silvano Bicocchi, Massimo Agus, Guglielmo Allogisi, Fabio Lalli, Attilio Lauria ) ma mancava qualcuno: un fotomatore. E sarebbe stato anche difficile individuarlo ed inserirlo, perché nessuno dei presenti (ad eccezione forse di Smargiassi, per alcune considerazione storico e sociali ) aveva (o ha) una nozione basica di chi sia “il fotoamatore”. Qui non vogliamo esser presuntuosi e dire la nostra (decisiva e non contestabile) opinione, ma solo esplorare un po’ questo concetto dialettico: dialettico perché fotoamatore si è sempre contrapposto a professionista, si è sempre inteso il fotoamatore colui che non mangia con la fotografia ma con la fotografia si diletta e si diverte. Penso che, al di là della contrapposizione che aiuta in molte occasioni (bianchi contro neri, comunisti contro fascisti, ecc.) la storia ci insegni che i massimalismi (meglio le ripartizioni secche e senza distinguo) siano sempre state forieri di cattive comprensioni del reale, oltre che di sguardi miopi sul futuro. In questa epoca nella quale il dinamismo e la trasformazione sono pani di tutti i giorni -­‐ per cui andiamo a letto la sera e, alla mattina, dobbiamo sforzarci di rileggere la nostra vita ( e ciò che ci sta intorno ) sempre con nuovi occhi – anche le categorie (sociologiche, storiche, scientifiche, ecc.) appaiono da adeguare continuamente, con i confini sempre più sfumati. Sia sufficiente pensare all’avvento della tecnologia digitale in fotografia: già la nascita della Polaroid aveva affrancato il dilettante dal giogo del laboratorio a pagamento (per cui poteva così fotografare senza remore l’amante nuda) ma l’abbandono del negativo, il passaggio al file e, quindi, al computer ed alla stampante casalinga, avevano fatto fare un altro balzo. Lo smartphone, addirittura, ora (e anche prima di ora), permette performance degne delle più avanzante camere professionali, anche qui emancipando il dilettante dal giogo dell’attrezzatura costosa, una volta appannaggio solo del professionista. La rete, poi, permette una diffusione planetaria delle immagini, da chiunque siano eseguite, anche pubblicandosi i libri fotografici da sé; per non parlare dei programmi per computer (anzi, prima per smartphone) che ti permettono esiti tecnici prima affidato solo a capaci professionisti: basta avere qualche centinaio di euro e (tanto) tempo a disposizione per apprendere bene i principi. Poi, qualunque obiettivo è alla nostra portata. Ma, fino a qui, vi è la rincorsa tecnica del dilettante al professionista con un gap che direi quasi colmato ( fatto salvo quando si fanno fare le foto del matrimonio agli amici e alla fine si scopre che lo scambio delle fedi è sfuocato…). Ma da chi sarebbe costituita questa categoria di “fotoamatori” che, nel convegno di cui sopra, dovrebbe esser ridefinita? Se non partiamo da una definizione quanto meno sicura, come facciamo a ridiscuterla? Penso che al convegno, molti abbiano fiutato il trabocchetto, prima di tutto i partecipanti della Fiaf. Nessuno di loro si avventurato su questa strada, i più hanno parlato di aspetti della fotografia attuale, in generale e in rapporto alla tecnologia, anche social, ad eccezione della pregevole presentazione di Smargiassi. E’ stato un peccato, non solo perché così si sarebbe aperti dei fronti (e dei confronti), penso non troppo piacevoli. E’ indubbio che all’interno della galassia Fiaf vi siano vari tipologie di fotoamatori ( dai concorsari ai portfoliari, ecc. ), tutti uguali e degni nella propria fotografia, ma credo che ci sia una categoria, quella dei “fotocopiatori” ( rubo il termine ad un Socio del mio Circolo, che lo ha ideato, me ne scuso ) che vada per la maggiore e non aspetti altro che il (buon) lavoro altrui. Certamente copiare (od ispirarsi pedissequamente) ad altre immagini è cosa buona, ma dopo un po’ occorre riflettere se questo serva veramente, per esser un fotografo; questo poi genera un corto circuiti tra chi fa e chi giudica, per cui chi giudica si adatta a chi fa e chi fa si adatta a chi giudica. Allora la mia idea è questa: è fotoamatore chi fotocopia stilemi (metteteci pure tutti i sostantivi che volete e che richiamino il concetto di similarità, se non quello di plagio) e tutti gli altri, che cercano una propria prospettiva personale, sono fotografi. Basta poco per passare di categoria (anche qui metteteci tutte le sfumature che volete) , probabilmente è sufficiente guardarsi dentro, invece che fuori. Per provocazione, si potrebbe fare una classifica Fiaf basata proprio su questa impostazione, affidando però la cernita delle immagini ad un computer con un programma appositamente scritto, per evitare inquinamenti o corruzione del giudizio. Non so quanti iscritti Fiaf (dei 40000 iscritti, se non erro) sarebbero nella classifica, ma penso veramente moltissimi. E ciò a riprova che moltissimi associati ancora, non comprendono la trasformazione che la Fiaf sta vivendo e il lavoro che è stato impostato; dall’altra parte, mi sembra che molti, nei ruoli dirigenziali Fiaf, ancora non comprendano che la Fiaf deve abbandonare certe posizioni di retroguardia, sia culturale che visiva, ora ancora più dannose di una volta. E qui, sono le nuove generazioni che ci guardano e ci giudicano: restare ancorati a certi porti, non porta a nulla, se non ad un mesto declino. Parafrasando Picasso: “La Fiaf non deve servire a riempire le pareti ed a conquistare medagliette, ma a liberare le persone e le menti”. Avv. Massimo Stefanutti Diritto della fotografia e della proprietà intellettuale © Riproduzione riservata

ARCHIVI PRESENTI ED ARCHIVI MANCATI

Un’ulteriore tappa del Grand Tour ( ottima idea della Dott.ssa Lorenza Bravetta, responsabile per il Mibact ) a San Vito al Tagliamento, nell’ambito degli Stati Generali della Fotografia. Questa volta il tema era il “Censimento degli Archivi Fotografici” lanciato dal Mibact per poter mappare la complessa realtà italiana degli archivi fotografici. Tramite il sito www.fotografia.italia.it , è possibile iscriversi a questo Censimento, introdurre i propri dati e la descrizione del proprio archivio fotografico e descrivere i singoli posti posseduti. Il Circolo Fotografico La Gondola – nella persona del Presidente – era l’unico partecipante veneto, nonostante San Vito al Tagliamento sia lontano al confine sloveno. Questo la dice lunga sull’interesse di enti pubblici e privati, associazioni, ad una prima corretta mappatura del materiale fotografico archivistico esistente. Le due brave rappresentanti del Mibact e di Camera Torino (quest’ultima incaricata di seguire logisticamente il censimento) hanno ben spiegato formalità e finalità dell’iniziativa. Attualmente sono iscritti, per tutta Italia, 138 enti ( ricordando che, per il momento, l’iscrizione è riservata agli enti pubblici e privati, ma non agli archivi privati ), per 142 raccolte (archivi) con un totale di 715 fondi. Con grande sorpresa, ad una rapido esame tramite smartphone, ci si è accorti come a Venezia ci siano solo due realtà iscritte: l’Archivio Fotografico della Fondazione di Venezia e il nostro Archivio fotografico. Per la nostra parte, sono in via di redazione ed inserimento le schede relative sia a tutto l’Archivio che ai singoli fondi: si tratta di un lavoro non facile e certosino che sarà completato entro l’anno. E’ prevista anche una tappa a Venezia, nei primi mesi del 2018. Ma la giornata ha fatto anche toccare con mano la splendida realtà culturale (anche nella fotografia) della regione Friuli Venezia Giulia la quale, tramite l’ERPAC ( Ente Regionale Patrimonio Culturale www.ipac.regione.fgv.it ) ha mappato e organizzato una rete capillare e conoscitiva di tutte le realtà archivistiche e fotografiche della Regione, supportando tramite i propri servizi le necessità specifiche. Qui, nella nostra Regione, a livello istituzionale il disinteresse per il proprio patrimonio fotografico (in un incontro di qualche anno fa si stimavano, solo a Venezia, fondi fotografici per 8/10.000.000 di immagini ) sembra totale. L’ultima iniziativa è stata la Guida ai Fondi Fotografici del Veneto del 2014. Se poi si vanno a vedere le pagine, nel sito della Regione Veneto, della Fototeca Regionale, appaiono abbastanza dettagliate, anche se descrittive, e risulta un aggiornamento ad aprile 2017. Tutto il resto – esattamente l’elencazione dei fondi esistenti fuori dalla Fototeca Regionale e al di fuori della disponibilità di questo ente – non è aggiornata dal 2014. A quando una seria iniziativa regionale sulla cultura fotografica, invece di spendere denaro in inutili consultazioni popolari? Avv. Massimo Stefanutti Diritto della fotografia e della proprietà intellettuale © Riproduzione riservata

Corri, corri, pittura: sono qui che t’inseguo. Da quando sono nata, da quando ho aperto questo mio occhio meccanico, ti scruto, ti analizzo, ti adoro, ti odio. Non so cosa tu abbia fatto, ma mi hai stregato: voglio essere come te, voglio essere in te. Non ho mai pensato abbastanza a questa nostra relazione, a questo nostro presente, al nostro futuro. Né voglio pensarci, adesso; voglio godermi questo momento di grazia. Io e te, qui, uniti da una superficie piatta, a due sole dimensioni. Ma chissà quanto durerà. Sento già strane voci, in giro; che non siamo simili, che appariamo profondamente diversi, che non andremo tanto d’accordo, che finiremo con separarci e prendere altre strade di vita. Qualche poetastro già mi offende: dice che sono facile e meccanica, senza anima, che sono usata come un surrogato da chi non sa fare . Tutti dicono che, posso, se voglio, copiarti: è vero, ma solo chi non mi conosce a fondo può cadere in questa mia trappola che io tendo sempre ai superficiali ed ai sempliciotti. Ma io ho un’anima mia. Per il momento non riesco stare a tuo confronto: posso solo apparire appesa al tuo fianco. Ma io so fare qualche cosa che tu non saprai mai fare: posso rifare – uguale uguale – quello che vedo, così, senza problemi. Tu, di questo non sarai mai capace! Io non so manipolare la realtà, per i tuoi fini ed usi, come fai tu. Io la ricopio esattamente così com’è su una superficie sensibile, simile ma anche diversa dalla tua. Ma queste sono le mie catene: da qui non posso scappare, non posso fare a meno di riprodurre esattamente il vero. Anche se, sinceramente, mi sembra solo un sogno. Però ieri ho visto un uomo, sembrava annegato; so che si chiama Hippolyte. Mi ha impressionato, non avevo ancora visto nulla del genere. Mi aveva esposto il suo corpo come fosse un soggetto ma non era un semplice autoritratto, era un’esibizione. E poi, adesso sono in tanti che mi bramano: ma dovrei essere fedele, agghindata e bella, per farti concorrenza. Dovrei essere sempre simile a te, con un po’ di carbone, qualche nuance, un accenno di flou. Magari anche con qualche altro effetto strabiliante ma sempre con bei soggetti: guarda quel tramonto, mi starebbe bene addosso? Il tuo spirito dovrebbe elevarsi, mostrare quello che è bello e gratificante agli occhi dei più, così mi dicono tutti. Ma io dei dubbi, mi sembrano discorsi ridicoli. Cosa c’è di bello tramite me? C’è sempre qualcuno che mi usa, e guarda, e dice che è bello, che piace, che emoziona. Ma, in sé, nulla esiste e non vi è niente di artistico, anche attraverso di me. Tutto questo mi sembra puerile ma è stato così, ed è così, anche ora. Tanti mi amano proprio per quello che suggerisco in loro: emozioni, stati d’animo profondi o semplici vibrazioni eteree. Ma è solo una parte di me (e neanche la migliore), ne ho tante altre nascoste. Ci fu, tanti anni addietro, un italiano, il Michelangelo Merisi -­‐ nato in un nebbioso paesello lombardo – che mi vide in modo diverso e che mi trattò con rispetto e venerazione. Anche se, poi, non amava proprio me, ma una mia luce: si chiudeva nella sua camera ottica romana e abbozzava i suoi grandi quadri con polvere ed un distillato di lucciole, tanto per vedere cosa sarebbe venuto fuori alla fine. Componeva tutto con grande attenzione, le ombre era profonde e la scena era quasi sospesa in aria; e poi faceva penetrare dalla porta o dalla finestra delle lame di luce che cadevano su visi, mani, vesti, tende, congelando il tutto in un momento sublime ed irripetibile. Mi pensava? M’immaginava? Non lo so: so solo che è stato l’unico a considerarmi, più di quattrocento anni fa, con un occhio vitreo e a capire come io potevo essere profondamente ma veramente diversa da te. Massimo Stefanutti (testo per “Il basket e i caravaggeschi” di Alessandro Rizzardini, Edizioni Ve.Sport, 2008) © Riproduzione riservata